Andiamo nei musei o visitiamo un’area archeologica per aggiungere pezzi di storia alla nostra conoscenza del passato e guardiamo a queste opere come a testimonianze su cui fare affidamento. Ma la storia dell’arte, e non solo, è costellata da vari momenti in cui questo racconto, considerato in genere come lineare e verosimile, viene interrotto da cortocircuiti innescati da falsificazioni, vuoti e sparizioni.

Da qui parte Giulia Parlato, fotografa palermitana e residente a Londra, che con il progetto Diachronicles ha vinto l’ultima edizione del premio Luigi Ghirri, un riconoscimento che dal 2018 finanzia e promuove la ricerca degli artisti italiani under 35.

E l’idea nasce proprio a Londra, al Warburg institute, fondato dal critico e storico dell’arte Aby Warburg, morto nel 1929, che nei suoi studi sull’iconografia aveva sviluppato un approccio che non si limitasse alla semplice analisi formale di un’opera ma la mettesse in relazione con la società in cui è prodotta e con la nostra memoria collettiva. Al Warburg, Parlato ha dato inizio a una ricerca sulle immagini di falsi storici e sui limiti della divulgazione del passato.

Il progetto parte dal museo archeologico Antonio Salinas di Palermo, dove sono conservati ed esposti i pupazzi di Mastressa, un gruppo di cento sculture che nella seconda metà dell’ottocento furono trovate nei terreni di un contadino siciliano, Gaetano Moschella, certificate nella loro autenticità dall’archeologo Francesco Saverio Cavallari e quindi vendute a diverse collezioni pubbliche e private, come quella del British museum. Dopo la scoperta della truffa, il museo Salinas le ha tenute nei suoi magazzini e successivamente gli ha dato una nuova vita nella collezione come testimonianza di un racconto ingannevole.

Parlato ha cominciato a riflettere anche su quanto la fotografia stessa sia soggettiva per vocazione e riesca a raccontare solo un punto di vista, pur plasmando il nostro immaginario. Ampliando la ricerca ad altre raccolte, tra cui il British museum e altre collezioni, l’autrice sceglie un bianco e nero che fa riferimento alla fotografia forense e archeologica, per dare vita a un archivio immaginario in cui le opere e gli spazi che le contengono fanno parte di un enigma, un gioco messo in atto per mettere in discussione i preconcetti visivi che abbiamo metabolizzato nel corso del tempo. “Diachronicles racconta come una storia che sembra familiare in realtà sia inaccessibile perché il passato è di per sé uno spazio inaccessibile”, afferma la fotografa.

Il progetto prende quindi vita nell’assenza, ribadita nel suo formato libro, appena pubblicato da Witty Books e accompagnato da un testo di David Campany, in cui il lettore non può contare su didascalie esplicative ma può farsi trasportare dalla possibilità di nuove interpretazioni e collegamenti in questo archivio dell’incertezza.

Diachronicles è anche una mostra, esposta alla Triennale di Milano fino al 26 marzo.

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