Nel tardo pomeriggio del 13 novembre, quando la conferenza sul clima di Glasgow (Cop26) era già andata oltre i tempi previsti, ha preso la parola Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea. Timmermans temeva che i rappresentanti dei 197 paesi della Framework convention on climate change delle Nazioni Unite (Unfccc, il trattato che prevede le conferenze sul clima), ormai stremati, stessero per “inciampare a duecento metri dal traguardo”, e si è rivolto così a tutti: “Pensate a una persona che conoscete e che sarà ancora in vita nel 2030. Pensate a come sarà la sua esistenza se oggi non manterremo la promessa di limitare il riscaldamento del pianeta a 1,5 gradi”.
A quanto pare il suo appello ha sbloccato una situazione in cui nessuno stava ottenendo tutto ciò che voleva e alcuni cominciavano a pensare che fosse meglio tirarsi fuori. Negli interventi successivi la maggioranza dei rappresentanti si è detta disposta ad accettare un compromesso e ha annunciato il sostegno a quello che è diventato l’accordo sul clima di Glasgow.
I delegati dei 197 paesi della Unfccc erano arrivati nella città scozzese con un obiettivo in particolare: velocizzare i meccanismi dell’accordo di Parigi del 2015 e magari aggiornarli per avere ancora la possibilità di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi rispetto ai livelli di metà ottocento. Anche se l’accordo di Parigi mirava soprattutto a mantenere l’aumento della temperatura “ben al di sotto dei due gradi”, il testo precisava che i paesi firmatari avrebbero dovuto “sforzarsi” per fare di più e restare sotto 1,5 gradi. Negli ultimi sei anni questa soglia è diventata fondamentale, in parte a causa di un rapporto pubblicato nel 2018 dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), che ha previsto conseguenze catastrofiche in caso di un aumento maggiore della temperatura.
Fin dall’inizio è stato chiaro che per stare sotto il limite di 1,5 gradi sarebbero serviti tagli alle emissioni di anidride carbonica molto più sostanziali di quelli fissati a Parigi nel 2015 (i “contributi determinati a livello nazionale” o Ndc). Per questo l’accordo prevedeva che gli Ndc sarebbero stati ridiscussi ogni cinque anni. La pandemia di covid-19 ha costretto a rimandare il vertice previsto per il 2020, e la revisione degli Ndc è slittata al 2021.
I nuovi Ndc promessi alla conferenza di Glasgow non sono sufficienti a rispettare l’obiettivo degli 1,5 gradi. I modelli matematici presentati durante il vertice mostrano che, anche mantenendo gli impegni presi, avremmo comunque il 68 per cento di probabilità di registrare un aumento compreso tra 1,9 e 3,0 gradi, con un valore mediano di 2,4 gradi.
Inserendo nel calcolo le proposte per raggiungere la neutralità carbonica (cioè l’equilibrio tra i gas emessi e quelli riassorbiti dal pianeta), la situazione sembra leggermente più incoraggiante, con un aumento che oscilla tra 1,5 e 2,6 gradi. Ma per il momento i discorsi sull’azzeramento delle emissioni di CO2 sono solo teorici. La Cina si è impegnata a fare in modo che le sue emissioni raggiungano il picco prima del 2030 per poi azzerarle entro il 2060, ma al momento il paese ricava ancora il 60 per cento della sua elettricità dal carbone. Molte altre promesse sul raggiungimento della neutralità carbonica sono totalmente prive di dettagli. Anche i modelli che si basano sulle previsioni più ottimistiche indicano che all’inizio del prossimo decennio il mondo avrà emesso una quantità di gas serra sufficiente a rendere del 50 per cento più probabile il superamento degli 1,5 gradi.
Tre novità
Per provare a evitarlo serviva un grande cambio di passo rispetto all’accordo di Parigi. La conferenza di Glasgow ha adottato tre novità che potrebbero accelerare il processo: nuove scadenze, la modifica degli accordi finanziari e un rafforzamento del multilateralismo. Ma al momento niente assicura che le nuove misure funzioneranno, soprattutto considerando la rapidità con cui dovrebbero essere applicate.
La prima novità riguarda la revisione degli Ndc. Il testo approvato nella seduta plenaria finale chiede ai firmatari degli accordi di Parigi di prendere provvedimenti per ridurre le emissioni nel 2022 invece che a metà del decennio. Molti grandi paesi in via di sviluppo, a cominciare dall’India, si sono opposti a questa clausola sostenendo di non poter fare più di quello che fanno già. Ma secondo la maggioranza dei delegati la cancellazione di questa clausola avrebbe spazzato via definitivamente ogni speranza di tenere in vita l’obiettivo degli 1,5 gradi, e alla fine i paesi emergenti hanno ceduto. Tuttavia, il testo non trasforma la revisione annuale degli Ndc in una nuova norma: gli impegni per il 2030 saranno presi nel 2022, ma per quelli relativi al 2035 bisognerà aspettare il 2025.
Il secondo metodo per accelerare il percorso verso gli obiettivi di Parigi riguarda lo stanziamento di risorse finanziarie. Le cifre sono molto più basse di quelle in cui speravano i paesi poveri, e i soldi non saranno versati in anticipo. Nel 2009 i paesi ricchi avevano promesso che entro il 2020 avrebbero stanziato cento miliardi di dollari all’anno in aiuti climatici ai paesi poveri. Nel 2019, secondo i dati dell’Ocse, si era arrivati a ottanta miliardi. Poi è arrivata la pandemia: non sappiamo quanti soldi siano stati stanziati nell’ultimo anno, ma è difficile trovare qualcuno convinto che la promessa sia stata mantenuta. Era uno dei punti più delicati alla vigilia del vertice di Glasgow, ed è stato citato molte volte dai leader dei paesi poveri e dai loro negoziatori.
Durante la conferenza si è capito che questi paesi stanno cercando di cambiare il loro approccio. Nei vertici precedenti avevano considerato quei cento miliardi in parte come un gesto di solidarietà dei paesi ricchi e in parte come delle donazioni filantropiche: l’occidente si è arricchito bruciando i combustibili fossili, quindi è responsabile per la condizione in cui si trova il pianeta; di conseguenza abbiamo un diritto morale a chiedere aiuto.
È scoraggiante che una scappatoia verbale diventi così importante in un vertice sul clima e che singoli paesi possano bloccare le trattative
Richiesta respinta
A Glasgow è emersa un’altra linea di pensiero, che considera lo stanziamento di risorse finanziarie come uno strumento essenziale per la transizione energetica e non più come una forma di aiuto. Senza questi fondi, infatti, i paesi poveri non avrebbero i mezzi per mettere in atto strategie di decarbonizzazione. Anche la cifra rivendicata è cambiata. L’India ha detto di aver bisogno di mille miliardi di dollari nel prossimo decennio per tagliare ulteriormente le emissioni, mentre i paesi africani hanno chiesto 700 miliardi all’anno. Il V20, gruppo creato nel 2015 da venti paesi vulnerabili, oggi diventati 48, ha invitato i paesi ricchi a rispettare l’impegno dei cento miliardi di dollari e a compensare i mancati stanziamenti degli anni scorsi. Altre nazioni emergenti hanno chiesto un aumento dei fondi dopo il 2025.
I paesi poveri non chiedono solo un aiuto per attuare una transizione indispensabile per tutto il pianeta: vogliono anche una compensazione per l’impatto attuale e futuro della crisi climatica. Il gruppo dei paesi in via di sviluppo – “G77 più la Cina” – ha proposto di creare un fondo per risarcire i “danni e le perdite”, ma la richiesta non è stata inserita nell’accordo finale di Glasgow. I piani per la creazione di un fondo di risarcimento sono stati bloccati dai paesi ricchi. Gli Stati Uniti, al primo posto per quantità complessiva di emissioni accumulate negli anni, temono che un passo del genere possa comportare enormi responsabilità finanziarie. A Glasgow cinesi e statunitensi hanno trovato un’intesa su alcuni punti – per dire al mondo che il clima è un tema fondamentale su cui bisogna superare i contrasti – ma non sui risarcimenti. Altri, tra cui l’Unione europea, si sono opposti sia al versamento degli arretrati sia all’idea di fissare una nuova cifra dopo il 2025 (sostenendo che bisogna discutere ancora). Invece è stato preso un impegno a negoziare ulteriormente un fondo di risarcimento e un accordo più ambizioso sui finanziamenti climatici dopo il 2025.
I paesi poveri hanno strappato alcune concessioni sui fondi per l’adattamento ai cambiamenti climatici (per esempio per costruire barriere lungo le coste). A Parigi le nazioni ricche avevano promesso di finanziare in uguale misura le politiche per contrastare il riscaldamento e quelle per l’adattamento, ma solo un quarto degli 80 miliardi di dollari stanziati nel 2019 è stato dedicato al secondo scopo. A Glasgow quegli stessi governi hanno promesso quantomeno di raddoppiare la cifra dedicata all’adattamento climatico entro il 2025. L’impegno è stato accolto con favore dai paesi che riceveranno i soldi, ma in sé non fa nulla per avvicinare il mondo all’obiettivo degli 1,5 gradi.
Inoltre durante il vertice sono stati valutati nuovi metodi per finanziare la de-carbonizzazione nei paesi poveri. Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania hanno accettato di dare 8,5 miliardi al Sudafrica nei prossimi tre-cinque anni. In cambio il paese africano si è impegnato a decarbonizzare il suo settore energetico e a farsi carico delle circa centomila persone che lavorano nel settore del carbone. I passi avanti in questo campo saranno monitorati nel corso del 2022. Se i risultati si riveleranno promettenti, i paesi promotori sperano di poter applicare lo stesso modello anche altrove.
Raffreddare il futuro
Iniziative di questo tipo rappresentano il terzo metodo proposto a Glasgow per accelerare la lotta all’emergenza climatica: un maggiore impegno, coordinato dal Regno Unito nel ruolo di paese ospitante, per arrivare ad accordi al di fuori dei negoziati delle Nazioni Unite. Sono le “coalizioni di volenterosi”, gruppi di governi, aziende e amministrazioni locali che presentano progetti sul clima in determinati settori. Tra gli accordi di rilievo annunciati a Glasgow ce n’è uno sulla riduzione della dipendenza dal carbone per la produzione dell’energia elettrica, uno sulla riduzione delle emissioni di metano, uno sulla svolta verde nel settore dei servizi finanziari e uno sulla lotta alla deforestazione. In tutti i casi sono stati coinvolti grandi paesi e grandi aziende. Questo ha dato l’impressione che la Cop26 abbia prodotto importanti risultati, ma all’appello mancavano alcuni paesi fondamentali: l’impegno sulla riduzione dell’uso del carbone, per esempio, non è stato firmato dai cinque primi consumatori di carbone del mondo. Inoltre questi accordi non sono facili da verificare.
◆ Alla Cop26 di Glasgow i leader mondiali hanno parlato molto della necessità di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi rispetto ai livelli di metà ottocento. Un obiettivo più ambizioso di quello fissato dall’accordo di Parigi del 2015, in cui i paesi firmatari si erano impegnati a mantenere l’aumento della temperatura “ben al di sotto dei due gradi”. La Reuters spiega quale differenza farebbe mezzo grado in più. “Secondo Daniela Jacob, ricercatrice del Climate service center Germany, mezzo grado significa che gli eventi climatici estremi – come le piogge torrenziali e le ondate di calore – diventerebbero più frequenti, più lunghi e più intensi”. Le conseguenze sugli oceani e le regioni ghiacciate sarebbero gravi: “Tenersi sotto gli 1,5 gradi vuol dire avere una buona possibilità di prevenire il collasso delle calotte di ghiaccio della Groenlandia e dell’Antartide, spiega Michael Mann della Pennsylvania state university”. Questo aiuterebbe a contenere entro livelli accettabili l’aumento del livello dei mari entro la fine del secolo. Invece un incremento di due gradi della temperatura causerebbe un innalzamento fino a dieci metri. Inoltre il 99 per cento delle barriere coralline scomparirebbe, gli habitat naturali dei pesci sarebbero distrutti, con effetti disastrosi per le comunità che dipendono dal mare. Infine ci sarebbero conseguenze negative anche sulle coltivazioni e la produzione agricola.
Eppure le nuove coalizioni potrebbero contribuire a “raffreddare” il nostro futuro. Consideriamo le emissioni di gas serra entro il 2030: per avere una possibilità di contenere il riscaldamento entro 1,5 gradi, le emissioni dovrebbero essere dimezzate rispetto ai livelli del 2010. Ciò significherebbe ridurre le emissioni annuali di una quantità di CO2 compresa tra 23 e 27 miliardi di tonnellate. La riduzione delle emissioni promessa nei nuovi Ndc riduce il divario di appena quattro miliardi di tonnellate, e questo spiega perché i modelli matematici presentati a Glasgow prevedono un aumento della temperatura intorno ai 2,4 gradi. Tuttavia, i calcoli fatti dopo i diversi annunci a Glasgow hanno evidenziato gli ulteriori benefici prodotti da queste nuove promesse.
Secondo Climate action tracker, gli impegni sul carbone, le foreste, il metano e i veicoli elettrici aggiungerebbero complessivamente due miliardi di tonnellate ai quattro della riduzione prodotta dagli Ndc, soprattutto grazie alle misure legate alla deforestazione e alla riduzione delle emissioni di metano. Ancora troppo poco per raggiungere l’obiettivo degli 1,5 gradi, ma in ogni caso è evidente che gli Ndc da soli non bastano.
Le coalizioni dei volenterosi potrebbero fare di più. L’accordo sul metano, per esempio, avrebbe potuto essere molto più ambizioso. Inserire le misure previste da questi accordi negli Ndc del 2022 per la Cop27 potrebbe servire a responsabilizzare i paesi coinvolti, ma anche in questo caso la misura non farebbe nulla per rafforzare gli impegni presi.
Motivi per sperare
Durante il vertice sono stati compiuti altri piccoli passi avanti. È stata finalizzata, dopo anni di trattative, la parte dell’accordo di Parigi che regola il modo in cui i paesi possono comprare e vendere quote di emissioni. Le nuove regole hanno permesso di cancellare alcune delle peggiori scappatoie, ma non è escluso che il cambiamento sia solo di facciata. Inoltre per buona parte della giornata conclusiva della conferenza è sembrato che fosse a portata di mano un accordo per abbandonare definitivamente il carbone. Sarebbe stata un’iniziativa non vincolante ma con un alto valore simbolico. All’ultimo minuto però l’India è riuscita a far cambiare il testo: l’accordo finale prevede solo una “riduzione” dell’uso del carbone. L’intervento di New Delhi ha creato forti tensioni in chiusura della conferenza. Alok Sharma, presidente britannico della Cop26, è scoppiato in lacrime.
È scoraggiante che una scappatoia verbale diventi così importante in un vertice sul clima e che singoli paesi possano bloccare le trattative per imporre le loro priorità. Ed è chiaro che queste manovre renderanno più difficile raggiungere gli obiettivi ambiziosi sul taglio delle emissioni entro il 2030, anche se gli eventi climatici estremi sempre più frequenti mostrano quanto sia urgente farlo. Non sappiamo con certezza se si potrà contenere l’aumento delle temperature sotto gli 1,5 gradi, a meno di pensare che nei prossimi dieci anni la tendenza possa essere invertita grazie alle tecnologie che catturano dall’atmosfera la CO2 già emessa.
Ma ci sono ancora motivi per sperare. I vertici delle Nazioni Unite non producono molto, ma qualche risultato lo ottengono. E a margine hanno cominciato a moltiplicarsi gli accordi multilaterali, che potrebbero dare un contributo significativo. Inoltre è stato giusto sottolineare nuovamente la necessità di contenere il riscaldamento del pianeta entro gli 1,5 gradi, anche se il mondo non è certo più vicino all’obiettivo di quanto lo fosse all’apertura della Cop26, a fine ottobre. Come ha sottolineato un delegato, l’accordo di Parigi non aveva sancito l’obiettivo in sé ma gli sforzi da fare per raggiungerlo. Ogni frazione di grado centigrado sottratta alle temperature previste può essere interpretata come il risultato di questi sforzi. Almeno in questo senso, l’obiettivo degli 1,5 gradi è ancora vivo. Magari non sarà una grande consolazione per tutte le comunità minacciate dall’aumento delle temperature, ma è sempre meglio che smettere di impegnarsi. Allo stesso modo il circo delle Cop gestite dalle Nazioni Unite è sicuramente meglio di un mondo senza nessuna piattaforma per la lotta alla crisi climatica. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1436 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati