“Non ho neanche una foto della mia infanzia”. Questa affermazione, espressa così semplicemente da Samuel Fosso, potrebbe spiegare perché fin dall’inizio l’artista usa se stesso come unico modello. Il modello di un’opera che appare oggi solida, profonda, problematica e politica.
Gli inizi di Fosso sono stati difficili a causa delle malattie, delle guerre e del caos del mondo: “Sono nato nel 1962 a Kumba, nel Camerun occidentale, da genitori nigeriani. Ero malato e in parte paralizzato e per curarmi mia madre mi ha portato in Nigeria da mio nonno, che si definiva un medico autoctono. Dopo le cure in Nigeria, mia madre mi voleva riportare in Camerun, ma era il 1967 e in Nigeria c’era la guerra del Biafra, per cui era impossibile viaggiare. Mia madre è morta in quel periodo, così sono rimasto con i miei nonni in Nigeria fino alla fine della guerra nel 1970. Sono tornato in Camerun per sei mesi con uno zio e nel 1972 l’ho seguito a Bangui, nella Repubblica Centrafricana, dove ho cominciato la mia carriera fotografica. Avevo intorno ai dieci anni quando ho cominciato a lavorare con lui. Un giorno, nel 1975, mentre andavo al mercato per fare delle compere per le sue mogli, ho visto uno studio fotografico. Il proprietario era nigeriano dello stato di Imo. Di solito dopo aver finito i lavori domestici andavo a riposarmi vicino allo studio, e così un giorno ho chiesto al fotografo se poteva insegnarmi il mestiere. Lui ha accettato, ma mi ha detto che prima di prendermi come apprendista doveva parlare con mio zio. Allora gli ho chiesto quanto mi sarebbe costato, per essere sicuro che mio zio non sarebbe stato contrario. Lui ha detto che la formazione non costava nulla perché all’epoca la Repubblica Centrafricana seguiva il sistema francese, per cui gli apprendisti erano pagati per il loro lavoro, al contrario di quanto succedeva in Nigeria, dove valeva il sistema britannico. Così ho lavorato in quello studio per cinque mesi, dall’ottobre 1974 al marzo 1975. A settembre dello stesso anno ho aperto il mio studio”.
A tredici anni Samuel Fosso aprì quindi il suo studio, dove realizzava foto per le carte d’identità, ma anche ritratti davanti a scenografie ispirate alle cartoline delle città dell’Europa dell’est e che pubblicizzava con la frase: “Allo Studio photo national sarete belli, chic, eleganti e facili da riconoscere”. A suo modo Fosso s’inseriva in una tradizione africana di fotografia di studio, ma si discostava molto dallo stile elegante di Seydou Keïta o di Malick Sidibé, che usavano sfondi con motivi geometrici ispirati ai tessuti locali. Questo non avrebbe impedito ai due grandi fotografi d’incoraggiare il ragazzo nel corso della sua carriera. Molto presto Fosso non si limitò a fotografare i suoi clienti: alla fine della giornata, quando gli avanzava della pellicola del formato quadrato, si metteva in scena e si fotografava.
Così tra il 1975 e il 1978 realizzò la serie 70’s lifestyle, posando con vestiti ispirati dalle riviste americane dell’epoca. Queste foto sono la parte più narcisistica della sua produzione e rappresentano già una presa di posizione evidente sulla sua omosessualità, attraverso i travestimenti con pantaloni a zampa di elefante e camicie variopinte. Esposte ai primi Incontri di Bamako nel 1994, queste immagini diedero subito notorietà all’artista. “Non sapevo che stessi facendo fotografia artistica. Quello che sapevo è che mi trasformavo in quello che volevo diventare. Vivevo direttamente su di me una serie di idee. Queste immagini vanno oltre la fotografia. Farle mi ha dato l’opportunità di lavorare sulla mia biografia, tornare a quando ero piccolo e nessuno pensava che fossi carino da fotografare. Nel frattempo avevo scoperto le immagini degli eventi in Sudafrica e quelle sulle condizioni dei neri negli Stati Uniti. E tutte queste cose hanno influenzato il mio modo di fotografare”.
Da quel momento il lavoro di Fosso ha cominciato a svilupparsi attraverso le serie fotografiche. La più importante s’intitola African spirits, un insieme di autoritratti del 2008 in cui il fotografo si traveste da Martin Luther King, Malcom X, Angela Davis, Patrice Lumumba o Mohammed Ali. Nessuna di queste immagini è accompagnata da spiegazioni, ma tutte fanno riferimento ai protagonisti della storia delle lotte per i diritti civili dei neri negli Stati Uniti. In precedenza, in occasione di un invito dei grandi magazzini Tati nel 1997, il fotografo aveva rinnovato il suo stile con delle messe in scena dai colori sgargianti, in cui si era divertito a prendere in giro gli archetipi del “borghese”, dell’“uomo d’affari”, della “donna americana disinibita degli anni settanta”, del “capo” (colui che ha venduto l’Africa ai coloni) o del “golfista”.
In seguito Fosso ha sviluppato dei lavori alternativamente legati alla sua personalità o alla sua identità, come la toccante evocazione a colori del nonno guaritore (che lui considera un eroe) o quella in bianco e nero dell’uccisione di uno dei suoi migliori amici, o altre composizioni più esplicitamente politiche, come quando inventa un papa nero o si traveste da fuciliere senegalese per la serie Allonzenfants. Oppure quando si trasforma in Mao riprendendo delle immagini di propaganda per evocare l’attuale influenza cinese sul continente. “In Africa nessuno si è reso conto di quello che la Cina sarebbe diventata per il continente”, dice Fosso. “Tutti i paesi africani sono diventati ostaggio della Cina. Vedo quello che i cinesi hanno fatto nel loro paese con la produzione di carbone e con l’inquinamento. Sono venuti qui per ricostruire l’Africa, con il pretesto che l’Europa non aveva più i mezzi per farlo. Ora sappiamo che distruggono e saccheggiano le risorse naturali del continente per i loro interessi, visto che l’Africa non è riuscita a sviluppare mezzi di produzione propri. Ma se la Cina se ne andasse, cosa diventerebbe l’Africa? La Cina è chiamata l’imperatrice d’Africa perché è sempre stata regolata da un sistema imperiale”.
Le tematiche legate all’identità e alla personalità restano comunque al centro dell’opera di Fosso. La sua permanente presa di posizione è caratterizzata anche dalla necessità di esaminare i sentimenti. Lo dimostra Sixsixsix, la serie di autoritratti in polaroid di grande formato color seppia, che oggi è conservata al museo Quai Branly-Jacques Chirac di Parigi ed esprime tutte le emozioni, dalla grande gioia all’infinita tristezza, passando per lo stupore e la paura.
“Quando lavoro”, conclude Fosso, “faccio una performance. Non si tratta di un soggetto o un oggetto, ma di un essere umano. Collego il mio corpo a una figura per tradurre la sua storia. A quel punto il mio corpo appartiene al soggetto, alla persona che in quel momento sto riproducendo”. ◆ adr
◆ La mostra Samuel Fosso, la prima che raccoglie in Francia tutte le serie dell’artista nigeriano, è in corso alla Maison européenne de la photographie, a Parigi, fino al 13 marzo 2022. Il libro Autoportrait (Steidl) è la prima raccolta completa dell’opera del fotografo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 74. Compra questo numero | Abbonati