L’ascesa degli Yard Act durante la pandemia è stata inaspettata. In meno di tre anni un gruppo di sperimentatori sonori anticapitalisti è diventato il tesoro delle major, in un periodo in cui l’industria della musica dal vivo era inesistente. Nel suo album di debutto, The overload, la band è riuscita a creare un suono particolare che è abbastanza fresco da rendere qualsiasi confronto senza senso, ma che al tempo stesso ricorda la maggior parte delle epoche del post punk. Il suono degli Yard Act si basa sullo spoken word e su testi culturalmente critici che non fanno alcuno sforzo per nascondere l’accento del West Yorkshire del cantante James Smith, il tutto supportato da una strumentazione post punk. Il punto di riferimento immediato per la maggior parte degli ascoltatori saranno senza dubbio i Blur, in particolare Parklife. Tuttavia le cadenze di Smith suonano più simili a qualcosa scritto da Mike Skinner di The Streets o perfino da John Cooper Clarke. Ma c’è una gamma impressionante di stili in tutto l’album, dalla batteria digitale africana e il coro synthpop anni ottanta di Payday ai riff jazz e le melodie alla Gorillaz di Land of the blind. In tutto l’album Smith critica il capitalismo e la vita quotidiana britannica con la satira e l’umorismo nero. Molte delle attuali band indie rock e post punk ricordano il periodo di successo del genere negli anni duemila. Gli Yard Act occupano un posto simile ai Black Country, New Road e ai Black Midi nel mantenere il prefisso “post” nel post punk attraverso uno sperimentalismo dilagante. Ma gli Yard Act hanno le canzoni più orecchiabili.
Ethan Stewart,
PopMatters
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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati