Primo sangue è una storia amara più che solenne. Tutto sommato, un lutto in trompe l’œil. Il padre di Amélie Nothomb, ambasciatore del Belgio in Asia per trent’anni, è morto il 17 marzo 2020, per la rottura di un aneurisma. Anziché scrivere un’orazione funebre o una raccolta di ricordi, Amélie ha fatto di meglio: ha prestato la sua penna al padre scomparso. È scivolata nella sua pelle. Lei è Patrick. Tanto più che in Primo sangue Amélie non esiste ancora: il libro si ferma al 1964, quando la sua nascita è una speranza e una promessa. Era l’anno in cui, come giovane console a Kisangani, poi Stanleyville, Patrick Nothomb, dopo quattro mesi d’interminabili colloqui, ha lottato per negoziare la sopravvivenza di 1.500 persone prese in ostaggio dai ribelli congolesi. Dovrà poi affrontare un plotone d’esecuzione (la scena, teatrale, apre e chiude il romanzo). Prima di questo famoso episodio africano, che inaugurerà la sua carriera nella diplomazia, da Pechino a Tokyo, c’è il castello delle Ardenne di Pont-d’Oye in cui, dopo la morte del padre militare ucciso da una mina, Patrick cresce con il nonno. Questo poeta cattolico, “mostro di snobismo”, cercherà più tardi di opporsi al matrimonio di suo nipote, con il pretesto che la fidanzata, futura madre di Amélie, non apparteneva al loro ambiente. Dall’infanzia e dalla giovinezza del padre, che diventa così la sua, Nothomb trae una commedia frizzante e sconveniente, in cui la “gioia insolita dell’esistenza” inchioda il dolore.
Jérôme Garcin, L’Obs
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Questo articolo è uscito sul numero 1449 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati