Il romanzo di Fonseca, intelligente, evocativo e atmosferico quando vuole, preciso e analitico in molti altri tratti, ha l’energia ossessiva di un postmodernista nordamericano, e allo stesso tempo un carattere proprio. Il libro ci porta in diversi scenari e temporalità attraverso due linee narrative che potremmo anche chiamare “indagini”. Da un lato, il rapporto tra un museologo e una stilista, accomunati dalla fascinazione per l’idea che tanto la natura quanto la cultura non siano altro che la ripetizione infinita di un modello archetipico. Dall’altro, il processo a un’ex modella scomparsa che ricompare come artista specializzata nel diffondere notizie false. Con questi ingredienti, e con la figura del subcomandante Marcos sullo sfondo a tenere il romanzo ben saldo alla sua dimensione storica, Fonseca costruisce un testo fortemente politico, un’analisi di un mondo di simulazioni, situato tra il deserto e l’astrazione, il nuovo e il vecchio, la teoria e il diritto, ma in cui anche i mostri possono essere una farsa. E ogni farsa, ci dice, ha delle conseguenze. È il racconto di un mondo di identità confuse in cui imboscarsi in una prigione autoinflitta si rivela l’unica forma possibile di lucidità.
Nadal Suau, El Cultural
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Questo articolo è uscito sul numero 1462 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati