I n un vecchio quartiere operaio di Oberhausen, nella regione della Ruhr, un uomo di mezza età s’immerge nel buio di un bunker della seconda guerra mondiale, passando attraverso un mare di ragnatele. Ha moltissime chiavi e una torcia. Aprendo varie porte di metallo, penetra in un mondo gelido: per molto tempo nessuno ha più dovuto fermarsi in questo regno quasi dimenticato, abbandonato ai topi da anni, con le sue pareti di cemento, i gabinetti protetti solo da tende di plastica e le tubature a vista sotto i bassi soffitti.
L’uomo con le chiavi – un addetto dell’Ente federale per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico – sostiene di non essere autorizzato a dire niente sulle condizioni del bunker: ordini dell’ente. Anche il suo nome non è di dominio pubblico. È qui per controllare se ci sono crepe nelle pareti, tracce di umidità e di corrosione. Al momento quella dei bunker in Germania è una questione delicata: le domande sono tante e le risposte non facili. Ai tempi della riunificazione nella vecchia Repubblica Federale Tedesca (la Germania Ovest) il governo poteva contare su circa duemila rifugi pubblici tra bunker, tunnel e garage sotterranei rinforzati. Attrezzati con impianti d’aerazione, gruppi elettrogeni d’emergenza, depuratori d’acqua e scorte alimentari, in caso di guerra queste strutture avrebbero offerto riparo a circa 1,6 milioni di persone.
Nessuno, invece, sa quanti fossero i bunker rimasti nella Repubblica Democratica Tedesca (la Germania Est), perché i bunker orientali non sono mai stati integrati nel cosiddetto programma rifugi dello stato tedesco unificato, dal momento che non rispettavano gli standard occidentali. Significa che dal 1990 la popolazione della Germania Est non ha più bunker a disposizione. In realtà, ormai, questo vale per tutto il paese: in caso d’emergenza nessuno dei rifugi esistenti sarebbe operativo.
Nel 2007, quando la pace nell’Europa centrale sembrava destinata a durare all’infinito, il governo tedesco decise di non costruire nuovi bunker e soprattutto di non mantenere agibili, come si dice nel linguaggio della burocrazia, quelli esistenti. Molti furono venduti, alcuni riadattati a centri culturali, altri trasformati in appartamenti di lusso e altri ancora demoliti a caro prezzo. Nessuno si è più occupato della manutenzione dei depuratori, di oliare i gruppi elettrogeni, d’integrare le scorte alimentari. In alcuni bunker sotterranei sono state installate pompe contro le infiltrazioni d’acqua. Ci sono comuni in cui gli ultimi ad aver visto il bunker locale ancora agibile sono dei pensionati.
A Oberhausen l’uomo con le chiavi percorre con occhio vigile i capannoni vuoti. Apre l’acqua, che si sente scrosciare nelle tubature, nei gabinetti e nei lavandini. Serve a contrastare la legionella? Non risponde. Le brandine invece dove andrebbero montate? Silenzio. E le scorte alimentari dove si potrebbero conservare? Ancora silenzio. Anche se fosse autorizzato a parlare, non saprebbe cosa dirci: ha sempre visto vuoto e in stato di abbandono il bunker affidato alle sue cure. Il suo lavoro consiste semplicemente nell’amministrarne il decadimento. Uno sviluppo felice della storia o, piuttosto, il frutto di un’omissione di proporzioni storiche.
Quando la Russia ha aggredito l’Ucraina, il ministero dell’interno tedesco ha incaricato l’Ente federale per la gestione del patrimonio immobiliare pubblico di verificare “la residua efficacia protettiva” di tutti i bunker. Il primo passo sono stati i controlli eseguiti su sessanta rifugi sparsi sul territorio nazionale: sessanta per 83 milioni di abitanti. Prossimamente sarà pronta una relazione.
La Germania non sta subendo attacchi di truppe nemiche, eppure la guerra colpisce anche la società tedesca, la trasforma, solleva nuovi interrogativi e sconvolge vecchie abitudini. Il cancelliere Olaf Scholz ha parlato di “svolta epocale”. Ma tutto questo, al di fuori degli ambienti governativi e parlamentari, che conseguenze ha? La Zeit ha attraversato la Germania incontrando persone di tutti i tipi, che hanno spiegato gli effetti della guerra in Ucraina sulla loro vita. Le loro risposte sono molto diverse da quelle degli ucraini che vivono in zone di guerra. Sono risposte tedesche, a volte decise, a volte incerte, specchio di una società in lotta con se stessa e con i suoi dubbi, ancora impegnata nella ricerca di una nuova strada.
Scorie radioattive
C’è un luogo particolarmente indicato per illustrare il cambiamento di mentalità in corso: si trova nella zona del Wendland, estremità orientale della Bassa Sassonia, dove abita Eckhard Tietke, 68 anni, agricoltore biologico che per più di quarant’anni ha lottato contro il progetto d’interramento delle scorie radioattive a Gorleben. Con il suo trattore ha bloccato la strada e si è visto vorticare sopra la testa gli elicotteri della polizia. Ancora oggi, racconta, lo perseguitano i lampeggianti delle pattuglie e oggi non riesce a guardare film polizieschi. Ricorda la sensazione d’impotenza provata davanti a un avversario soverchiante, ma ha sempre rifiutato la violenza come mezzo per raggiungere i suoi obiettivi. Ormai, però, anche questa convinzione è svanita.
Da tempo Tietke è iscritto al partito dei Verdi. Qui, nella zona del Wendland, c’è stata una fusione tra il movimento pacifista e quello ambientalista. Paradossalmente, però, dopo l’attacco russo sono stati soprattutto i Verdi a sostenere la fornitura di armi pesanti all’Ucraina, una linea che Tietke condivide. Com’è possibile? Al telefono ci dice che, pur essendo uno dei due portavoce dei Verdi nel circondario di Lüchow-Dannenberg, non può parlare a nome del partito perché ancora non c’è stato un confronto tra gli iscritti, la maggior parte dei quali, dopo l’attacco russo, si è sentita disorientata e come paralizzata.
In un pomeriggio di giugno Tietke invita qualche compagno di partito a casa sua, una fattoria nel villaggio di Groß
Breese. Offre caffè e biscotti di avena. All’ultimo momento alcuni militanti hanno tentato di impedire l’incontro con la Zeit: prima volevano riunirsi tra loro e arrivare a una posizione condivisa. “Io la mia posizione ce l’ho, non ho bisogno di consultarmi con nessuno. Sono tutte cretinate”, osserva Tietke, che non è il solo a ritrovarsi improvvisamente dalla parte di chi appoggia la fornitura d’armi.
Anche gli altri cinque compagni riuniti qui a bere caffè la pensano come lui. E mentre i sostenitori della svolta si esprimono, i contrari neanche si presentano. Nel giro di qualche mese si sono ritrovati a doversi difendere all’interno del proprio stesso partito.
Uno dei presenti osserva: “Dal 24 febbraio è cambiato il mondo. E, ci piaccia o no, dobbiamo farci i conti e assumere una posizione politica”. Un altro aggiunge: “Tutto quello che giudicavo imprescindibile nel diritto internazionale è stato ignorato. Ritengo sia un cambiamento epocale che mi costringe a confrontarmi con un nuovo me stesso”.
A lungo è stata data per scontata l’idea che fosse impensabile mandare armi in zone di guerra o di crisi, mentre ora si discute di armi pesanti, dagli effetti devastanti. Sono bastate poche settimane per passare dal lanciarazzi anticarro Panzerfaust all’obice semovente corazzato. E, secondo i sondaggi, oggi un cittadino tedesco su due approva la fornitura di armi pesanti. Ha smesso di essere vera una di quelle storie che a lungo i tedeschi si raccontavano: quella per cui la Germania sarebbe una società in tutto e per tutto pacifista, che magari manda i suoi soldati in remote zone di guerra, ma non subisce minacce esterne.
Cosa pensano i verdi del Wendland della netta presa di posizione della ministra degli esteri Annalena Baerbock e di quello dell’economia Robert Habeck, entrambi del loro partito? A casa di Tietke sono tutti d’accordo. “Io sono sempre a favore delle decisioni tempestive”, dice Tietke. E l’ondata di defezioni che, secondo alcuni, colpirà i Verdi a livello nazionale? Per ora non c’è stata. “Ovviamente il programma va ridiscusso”, spiegano i presenti, perché vieta l’esportazione di armi e materiale bellico in zone di guerra. Ora la realtà politica è cambiata.
Anche le sezioni dei Verdi più di sinistra in altre zone della Germania sono in maggioranza per la fornitura d’armi. Da Mönchengladbach fanno sapere che lo slogan “mai più guerra” è diventato “mai più una guerra d’aggressione”. A Darmstadt dicono che per il partito le armi non sono mai abbastanza. E anche i duemila iscritti alla sezione dei Verdi di quella che era la circoscrizione elettorale di Hans-Christian Ströbele (esponente della sinistra dei Verdi che chiede cautela nel riarmo dell’Ucraina), cioè nel distretto di Friedrichshain-Kreuzberg di Berlino, si sono pronunciati in gran parte per la fornitura di armi pesanti. Solo un iscritto ha lasciato il partito.
Nella zona del Wendland l’agricoltore Tietke è ancora convinto che con le armi non si possa arrivare a una vera pace. “Ma”, aggiunge, “se Putin vince la guerra che succede? I massacri continueranno”, aggiunge. Un altro dei presenti dice: “Se non aiutiamo l’Ucraina ora, è solo questione di tempo: arriverà anche il nostro turno”.
Puntini luminosi
Jürgen Schumann, ufficiale della Bundeswehr, l’esercito tedesco, sullo schermo del computer vede un mucchio di puntini luminosi. “Questi sono i mezzi per il trasporto truppe dei polacchi. Qui invece abbiamo un’aviocisterna britannica e qui degli apparecchi da ricognizione di vari paesi della Nato”, spiega. Sul monitor appaiono i movimenti degli aerei militari ai confini tra Polonia, Russia e Bielorussia, cioè in quella parte del versante orientale della Nato che ora vede costantemente impegnati i caccia delle forze armate tedesche a scopo di deterrenza.
Da quando le truppe russe hanno invaso l’Ucraina, i puntini luminosi si sono moltiplicati e sullo schermo si vede un brulichio di luci. La Nato parla di dimostrazione di forza: l’alleanza occidentale schiera il suo arsenale, lasciando intendere di cosa sarebbe capace se dovesse o se volesse agire. Quando racconta che in queste dimostrazioni di forza i suoi piloti sono in primissima linea, nella voce di Schumann risuona una nota d’orgoglio: “Noi, in aria con i nostri aerei, siamo presenti fin dall’inizio”.
Schumann stesso è pilota di un Eurofighter ed è anche vicecomandante dello squadrone tattico 71 dell’aeronautica militare, il Richthofen, di cui fanno parte diciannove Eurofighter e circa 240 soldati. Il Richthofen sarebbe di stanza a Wittmund, nella Frisia Orientale, solo che lì la base aerea è in ristrutturazione. Per questo ora gli aerei sono stati spostati nella base di Rostock-Laage, nel Meclemburgo-Pomerania Anteriore, trecento chilometri più vicino alla guerra. Mentre a Wittmund sono al lavoro bulldozer e scavatori, Schumann impartisce ordini ai suoi piloti da un edificio che è semplicemente una pila di container. Ristrutturare e improvvisare, ecco due attività adatte a un esercito prima ridotto al minimo da anni di tagli, nell’indifferenza di buona parte dell’opinione pubblica, e ora oggetto di enormi e improvvisi investimenti perché già domani sia in grado di fare cose che realisticamente non sarà in grado di fare neanche dopodomani.
Dopo l’invasione russa il ministero della difesa tedesco ha ricevuto molte più richieste di persone interessate ad arruolarsi. Anche Schumann ha avuto modo di rendersi conto che l’immagine della Bundeswehr sta migliorando. All’improvviso i vicini hanno cominciato a chiedergli lumi sulla situazione e gli dicono spesso una frase che finora i militari non sentivano quasi mai: “Per fortuna che ci siete voi”. Molti militari raccontano di esperienze simili. “Capita che per strada o in treno mi dicano: ‘grazie per quello che fa’”, dice un ufficiale dell’esercito. Un altro invece racconta che amici e conoscenti, che finora non si erano mai interessati al suo lavoro, “a un tratto vogliono sapere tutto dell’obice semovente PzH 2000”.
Le condizioni degli infermieri
È un giovedì di metà maggio, il ministro degli esteri ucraino è arrivato a Berlino per chiedere più armi al governo tedesco, mentre la Finlandia annuncia l’intenzione di entrare “senza indugi” nella Nato. Al Bundestag, il parlamento tedesco, Ates Gürpinar si avvicina al leggio degli oratori. Gürpinar non è uno di quei deputati resi famosi dai programmi televisivi e non ricopre cariche importanti nel gruppo parlamentare del suo partito, Die Linke (La Sinistra). Vuole affrontare una questione che fino a non molto tempo fa era in cima all’agenda politica: le pessime condizioni di lavoro degli infermieri. Gürpinar parla di ospedali che hanno carenze di personale, di infermiere esauste e pazienti trascurati. Ne risentono “gli elementi più deboli della società”, esclama. “Deperiscono, muoiono, e questo succede in uno dei paesi più ricchi del mondo!”.
La tribuna stampa del Bundestag è praticamente vuota. In quella dei visitatori sonnecchiano alcune scolaresche annoiate. Nelle prime ore della sera centinaia di infermieri sfilano a Berlino per rivendicare migliori condizioni di lavoro. Suonano i tamburi, fischiano e gridano. Ma il telegiornale parla di allargamento della Nato, di sanzioni alle esportazioni di gas russo e per finire, come sempre, del meteo.
Anche il governo vuole affrontare il problema sollevato da Gürpinar: l’aumento del numero di infermieri in rapporto alla popolazione chiesto dal deputato è perfino nell’accordo di governo siglato dalla coalizione semaforo, quella tra socialdemocratici (rossi), verdi e liberali (gialli). L’unico problema è che nessuno fa niente. Il governo aveva promesso di occuparsi della difficile situazione degli ospedali, ma poi è arrivata la guerra e tutto il resto è passato in secondo piano. Aveva promesso d’impegnarsi per ottenere maggiore equità e benessere, il suo motto era “osare più progresso”, ma il conflitto sembra aver riportato il paese a un’epoca che sembrava ormai passata da tempo. Ora il motto è: “Osare più carri armati”. Saranno investiti in spese militari cento miliardi di euro fuori bilancio. Altri miliardi serviranno per pacchetti contro gli effetti dell’inflazione.
Di conseguenza il reddito di base – pensato per sostituire i sussidi sociali della riforma Hartz IV – e gli assegni familiari potrebbero risultare meno generosi del previsto. Insieme a importanti pezzi dello stato sociale sta vacillando anche il più significativo progetto di questo governo: l’azione per la difesa del clima. Davanti al rischio di una crisi energetica, le centrali a carbone, grandi produttrici di anidride carbonica, tornano all’improvviso imprescindibili, insieme alle importazioni dagli Stati Uniti di gas naturale liquefatto, quello estratto dal sottosuolo attraverso l’inquinante tecnica del fracking (fratturazione idraulica).
A Berlino i residenti di provenienza russa sono circa centomila
Per la prima volta dalla fine della guerra fredda, l’Istituto di ricerca internazionale sulla pace (Sipri), con sede a Stoccolma, ha registrato un’inversione di tendenza e prevede che il numero delle testate nucleari, all’incirca tredicimila in tutto il mondo, tornerà a crescere. Al momento nella base aerea di Büchel, nella Renania-Palatinato, ci sono circa venti bombe atomiche statunitensi. Secondo uno studio del forum sulla sicurezza di Monaco di Baviera, nel 2021 solo il 14 per cento dei tedeschi era a favore del loro mantenimento, mentre oggi la percentuale è salita al 52 per cento.
La comunità russofona
C’è un altro fenomeno, apparentemente secondario, che sta prendendo piede: da quando la Russia ha invaso l’Ucraina, ci sono parole che hanno assunto un suono diverso e che potrebbero rivelarsi pericolose. Prima di rispondere alle domande, Svetlana Müller riflette a lungo, si corregge, riformula. È seduta nel cortile della Kulturbrauerei di Berlino, sulla soglia di Panda Platforma, il centro culturale della comunità russofona di cui è presidente. Anche russofono ora è una parola dal sapore diverso?
All’interno la cantante pop ucraina Jerry Heil, interprete di canzoni contro la guerra, resa famosa dal brano Putin, go home, sta registrando un video. L’ha invitata Müller. La presidente del Panda, 48 anni, originaria di San Pietroburgo, è una donna vivace dai ricci capelli scuri, parla velocemente e gesticola parecchio.
È probabile che questo sia uno dei pochi spazi pubblici rimasti in Germania dove russi e ucraini ancora s’incontrano, talvolta perfino sul palco. All’ingresso è appesa la bandiera ucraina. C’è una forte spinta interiore – e anche una forte pressione esterna – a prendere posizione. Secondo Müller molto era cambiato già dopo l’annessione russa della Crimea nel 2014. “Ora però girarsi dall’altra parte è diventato assolutamente impossibile”, dice. I russi, anche quelli che vivono in Germania, devono dichiarare da che parte stanno. Per prendere inequivocabilmente le distanze da Vladimir Putin, dopo l’invasione la Russkij Berlin, emittente radiofonica russofona di Berlino, e l’omonima testata hanno cambiato nome diventando rispettivamente Golos Berlina (Voce di Berlino) e Redakzija Germanija (Redazione Germania). Russo sembra una parola tossica.
A Berlino vivono circa 25mila russi. Calcolando anche le persone d’origine tedesca immigrate dai paesi dell’Europa orientale prima e subito dopo la caduta del muro e gli ebrei dell’ex Unione Sovietica accolti in Germania, i residenti di provenienza russa sono circa centomila, a cui si aggiungono circa centomila ucraini.
“All’improvviso nazione, provenienza e passaporto hanno un ruolo fondamentale”, racconta Müller. Questo vale anche per chi, come lei, è venuto in Germania per amore nel lontano 1994, sposando un tedesco e senza aspettarsi mai niente di buono da Putin. Al Panda vengono a parlare i detrattori dell’autocrate russo, per esempio Svetlana Tichanovskaja, leader dell’opposizione bielorussa, e lo scrittore russo Vladimir Sorokin. Insomma, né il Panda né Müller possono essere sospettati di propaganda filorussa. Eppure si sentono sotto osservazione, e infatti qualche donatore del centro culturale si è già defilato. Müller corre da un appuntamento all’altro per spiegare. Cosa? Che non tutti i russi sono fatti della stessa pasta.
Müller si occupa di contattare band, musicisti e autori per gli eventi del centro. Ha cominciato a chiedere agli artisti che ancora non conosce bene di confermarle che non sono seguaci di Putin. Sulla homepage del Panda c’è scritto: “La nostra piattaforma non è a disposizione di chi giustifica l’aggressione militare russa in Ucraina”.
Di recente Müller ha detto di no a una compagnia teatrale per bambini russofona, perché la direttrice non voleva affrontare il tema della guerra nello spettacolo.
“M’impegno per non commettere errori”, spiega Müller. Ha smesso di usare espressioni come “stati post-sovietici” o “ex repubbliche sovietiche”. Ora parla di “community post orientale”. Qualsiasi cosa evochi il fatto che in passato la Russia e l’Ucraina facevano parte di un’unica entità statale è impronunciabile.
Nei giorni immediatamente successivi all’invasione, Müller si è offerta di parlare in inglese con tutti gli ucraini che ha incontrato, nel caso non volessero parlare la lingua dell’aggressore. Ma quando un’amica ucraina ha scritto sui social network che si augurava di vedere le città russe in macerie, Müller, pur con tutta la buona volontà, ci è rimasta male.
La guerra mette alla prova amicizie e amori. Il primo spartiacque è stato l’annessione della Crimea. All’epoca Müller ruppe con alcuni amici russi. C’era anche chi aveva lasciato il partner. “Convivere con qualcuno che è a favore dell’annessione della Crimea è impossibile”. Anche in Germania, insomma, la comunità russa è profondamente divisa. E sui social network ogni comunicazione da privata diventa subito pubblica. “Chi non ha postato nulla dopo il 24 febbraio diventa sospetto”, spiega Müller, che sa di vivere in una bolla di persone che la pensano come lei. Ma bastano pochi chilometri per arrivare nel quartiere di Marzahn, dove vivono molti russi-tedeschi. Gran parte di loro con tutta probabilità ha opinioni molto diverse da quelle di Müller, che ha visto passare cortei di macchine filorussi con tanto di bandiere.
Vicino al Panda su un muro è comparsa all’improvviso una scritta in cirillico: “Slawa Rossija”, gloria alla Russia.
Dirk e la sua chitarra
Il palazzo del comune di Mühlenbeck, nel Brandeburgo, è adornato di palloncini colorati e uno striscione con scritto “Festa del municipio”. A destra dell’edificio ci sono i bagni chimici e a sinistra le tavolate: sulle panche di legno sono sedute circa 150 persone. I bambini giocano a nascondino e un gruppetto di adolescenti fuma in un angolo. Nell’aria c’è odore di brace e zucchero filato.
È sabato. Poco prima delle sette e mezza un presentatore esclama “ciao Dirk, benvenuto!”. Sul palco sale Dirk Zöllner con la sua chitarra. È completamente vestito di nero, le uniche macchie di colore – rosso – sono il nastro attorno al cappello e le scarpe da ginnastica. Il cantante si asciuga il sudore sul viso, si avvicina al microfono e dice: “Il cambiamento è sempre un bene e in questo momento stiamo attraversando incredibili cambiamenti, nella società e non solo. Certo, la guerra è una merda, fa schifo, ma durante il viaggio dobbiamo stare uniti. Perché la meta è il viaggio stesso”. La macchina del fumo spara nuvole grigie nell’aria afosa della sera e i riflettori immergono tutto quanto in una luce viola. Zöllner pizzica la chitarra e attacca la prima canzone, una ballata che s’intitola Auf der Reise, in viaggio.
Qualche settimana prima Zöllner è nel giardino della sua casa, nel quartiere berlinese di Köpenick. Il figlio piccolo gioca sul prato, il bucato è steso ad asciugare. Zöllner ha sessant’anni e quattro figli.
È nato a Berlino Est e da giovane fece un apprendistato in una fabbrica di elementi in calcestruzzo. Poi però si rese conto di preferire la chitarra, diventando uno dei musicisti rock più famosi della Germania Est. Alla fine degli anni ottanta James Brown si esibì a Berlino Est e Zöllner aprì il suo concerto.
L’inflazione colpirà duramente. I prezzi di pane, latte e pasta continuano a salire
Ci sono zone dell’ex Germania Est in cui è ancora una star. Continua ad andare in tour, a Erfurt e Lipsia, a Greifswald, Nordhausen, Hoyerswerda. Si esibisce su palchi abbastanza piccoli da riuscire a cogliere cosa agita gli animi del suo pubblico. “Tanti sono basiti”, racconta. “La fornitura d’armi, i carri armati, è inconcepibile!”. La maggior parte della gente che incontra nutre una profonda diffidenza nei confronti del governo, proprio com’è successo durante l’ultima grande crisi, la pandemia. “Io ho paura”, dice Zöllner. “Se Putin perde i territori del Donbass e dà di matto, noi che facciamo? Che succede se la guerra arriva qui da noi?”. Una domanda legittima per un padre.
Zöllner è cresciuto a Karlshorst, quartiere di Berlino Est dove un tempo stazionavano centinaia di soldati sovietici. Da piccolo giocava con i figli degli ufficiali russi e da giovane è stato insieme a una russa. Molti anni dopo la caduta del muro di Berlino ha fondato una band con dei musicisti russofoni dell’Ucraina orientale. “Si chiamava Russenconnection, un nome che oggi sarebbe inconcepibile”, racconta Zöllner, che continua a parlare il russo meglio dell’inglese. Gli altri componenti della sua band gli raccontavano storie interessanti: sugli oligarchi ucraini che tentavano di manipolare i loro concittadini facendo gli interessi degli Stati Uniti, per esempio. Prove non ne ha, dice Zöllner, ma questo gli hanno detto.
Di recente Renate Köcher, che dirige l’istituto demoscopico Allensbach, ha descritto sul quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung come i tedeschi orientali e quelli occidentali vedono la guerra in Ucraina. A ovest il 55 per cento degli interpellati è a favore della fornitura d’armi, a est solo il 21 per cento. A ovest il 91 per cento è contento che la Germania faccia parte della Nato, a est il 62. In caso di attacco a un paese della Nato, a ovest il 63 per cento sosterrebbe l’entrata in guerra della Germania, a est solo il 36 per cento. Mentre la maggioranza dei tedeschi occidentali vuole che il paese si armi contro Putin, la maggior parte di quelli orientali vuole soprattutto una cosa: tenersi fuori dal conflitto.
Prima la crisi dei rifugiati, poi la pandemia, ora la guerra in Ucraina: è la terza volta che un’importante questione politica spalanca un abisso tra l’est e l’ovest del paese. Secondo Köcher, nel caso della guerra questa distanza non si deve solo alla tradizionale vicinanza alla Russia dei cittadini dell’ex Germania Est, ma anche al fatto che “la popolazione dell’est tende a sostenere meno qualsiasi impegno militare”. Come già per il covid-19 e i rifugiati, anche in questo caso ci si chiede se l’informazione non sia troppo unilaterale, troppo bellicista. Di risposte certe non ce ne sono, anche perché uno stesso commento giornalistico, uno stesso reportage radiofonico o televisivo può essere interpretato in modo molto diverso da persone diverse.
Nel suo giardino Zöllner ci racconta del periodo trascorso molto tempo fa nell’esercito della Repubblica Democratica Tedesca, la Nationale Volksarmee. Sa come ci si sente a sparare e la sensazione non gli piace. Di recente è stato invitato a parlare in un teatro di Halle. “Il mio cuore batte per i disertori!”, ha gridato al pubblico. “Per tutti quei russi e quegli ucraini che rifiutano la guerra”.
Zöllner politicamente si colloca a sinistra. Si è anche esibito per la Linke. Non è un populista esagitato né uno disaffezionato alla politica, ma la nuova politica estera tedesca lo preoccupa, e non è certo il solo a cui fa quest’effetto. Il pubblico dei suoi concerti in genere è composto da persone tranquille e istruite: “Molti insegnanti, molti medici”, dice Zöllner. “Si allontanano sempre di più dalla politica”.
La sua band si chiama Die Zöllner e come logo ha una Z arancione su fondo nero, più arrotondata di quella che campeggia sui carri armati russi, ma pur sempre una Z. “Ci criticano continuamente perché non abbiamo modificato il logo”, dice Zöllner. “Ma che dovremmo fare? Cambiare il nostro nome in Öllner? E gli ZZ Top allora?”.
Collo di bottiglia
Gli economisti stanno rivedendo le loro previsioni: l’inflazione colpirà più duramente del previsto. I prezzi di pane, latte e pasta continuano a salire. È probabile che all’Oktoberfest di Monaco quest’anno un boccale di birra da un litro costerà quasi 14 euro. La Russia riduce le forniture di gas alla Germania, i depositi di stoccaggio si riempiono a rilento e c’è il rischio di un drammatico collo di bottiglia. Il tabloid Bild suggerisce di ridurre le docce.
Ogni chilowattora in meno è un contributo alla pace? Di recente il governo ha avviato una campagna all’insegna dello slogan “80 milioni di persone unite per la svolta energetica”, con tanto di manifesti nei centri storici delle città e annunci sui social network. Corina Möller il suo riscaldamento l’ha abbassato da un pezzo, non a causa della guerra ma per ragioni economiche. Corina ha 38 anni, due figli piccoli e vive con loro in affitto ad Amberg nel Palatinato. “In linea di massima”, dice, “non credo che la moralità sia fuori posto in politica. Anzi, alla politica servirebbe decisamente più moralità. La domanda però è una: alla fine le conseguenze di tutta questa moralità chi le paga?”.
È evidente che il comportamento dei cittadini è influenzato soprattutto dalle bollette del gas. Sembra confermarlo anche un sondaggio della Federazione tedesca per la gestione energetica e idrica, secondo cui quasi l’80 per cento dei tedeschi ha risparmiato sul riscaldamento: due terzi per fronteggiare l’aumento del costo dell’energia e un quinto per tutelare l’ambiente. Solo il 5 per cento degli intervistati ha deciso di abbassare i riscaldamenti a causa della guerra.
Ad Amburgo, Bianca Fürstenberg, 33 anni, è seduta su una panchina lungo il fiume Elba, con il sole che le illumina il viso e una neonata di pochi mesi che le dorme a fianco. Ne ha due, il primo è un maschio. Bianca e suo marito hanno appena aperto un’azienda che produce piccoli componenti per macchinari e gli affari vanno bene. Insomma, lei descrive la sua vita come un idillio felice, eppure anche il suo mondo è cambiato. Racconta che sua figlia Felina è una dei 54.714 bambini nati in Germania nel febbraio 2022, il mese in cui è scoppiata la guerra in Ucraina.
Il suo è stato un parto difficile e, quando finalmente è nata, la bambina è stata sottoposta a ventilazione neonatale. Poi le sue condizioni sono migliorate, solo che a quel punto è insorta un’altra questione di cui preoccuparsi: seduta sul divano di casa con la bimba in braccio, guardava in tv le immagini delle donne in fuga dalla guerra con i loro figli, le immagini dei bambini medicati nella stazione della metropolitana dopo il bombardamento dell’ospedale. Più cose veniva a sapere più piangeva, racconta. Piangeva per tante cose, anche per se stessa e per i pericoli che minacciavano la felicità della sua famiglia. Rispetto alla sofferenza delle vittime della guerra in Ucraina, quella della giovane madre non sembra particolarmente grave, una forma di compassione più che di sofferenza vera e propria. Ma, quando si avvicina la guerra, quale madre, quale padre non pensa immediatamente ai suoi figli?
“All’inizio pensavo di delirare, pensavo fossero gli ormoni”, racconta Bianca. Poi però si è resa conto di non essere la sola ad avere pensieri simili: con un’amica che come lei aveva partorito da poco, invece di parlare delle loro notti insonni, si è messa a discutere di come si scalda un biberon quando si è costrette a passare la notte in una cantina senza elettricità.
Un sondaggio della fondazione Bertelsmann ha rilevato che oggi due terzi dei tedeschi temono che la guerra in Ucraina possa arrivare in Germania. La maggior parte degli interpellati non si sente al sicuro, e più cresce la sensazione di insicurezza più diminuisce la disponibilità ad appoggiare le sanzioni alla Russia.
Anche parlando con chi lavora a contatto con i neogenitori – ostetriche e direttrici delle Elternschulen, centri specializzati nei servizi ai neogenitori – si ottengono risposte simili: all’inizio della guerra i padri hanno improvvisamente cominciato a chiedersi cosa sarebbe successo se avessero dovuto difendere il loro paese. E come si sarebbero sentiti se un giorno il figlio fosse dovuto partire per la guerra. Questa fase è durata qualche settimana, poi è scattato un altro meccanismo: quello della rimozione. Molti genitori hanno deciso che la guerra non sarebbe più entrata nella vita quotidiana delle loro famiglie. Non si parla più dei crimini di guerra commessi in Ucraina, ci si concentra sui propri bambini felici che cominciano a gattonare o a camminare. Insomma, si prova a costruire una felicità personale nel bel mezzo dell’infelicità del mondo.
Uno studio dell’istituto per le indagini di mercato Rheingold ha rilevato che in Germania le persone che cercano di ignorare la tragedia ucraina sono sempre di più. Quando è scoppiata la guerra c’è stato un momento di shock collettivo, ma ora molti desiderano la normalità, spiega uno degli psicologi dell’istituto, che ha condotto 130 interviste approfondite. Nonostante tutto, la guerra resta un sottofondo inquietante, una sorta di “acufene bellico”, un rumore nell’orecchio che non se ne vuole andare.
Nell’estate del 2022, a quattro mesi dall’inizio della guerra, sembra esserci posto per tanti pensieri e sentimenti contrastanti. Si può fare scorta di legumi e subito dopo farsi uno spritz. È come se i tedeschi si abbandonassero al bel tempo e alle vacanze estive anche nella consapevolezza che in autunno le cose potrebbero mettersi male.
Un terremoto non lo vedi arrivare e anche le catastrofi atomiche sono eventi inaspettati. Invece la guerra continuerà di sicuro, lo sappiamo già, proprio come sappiamo che le fonti energetiche cominceranno a scarseggiare e che presto andranno prese decisioni politiche difficili. Sembra che i tedeschi vogliano ancora godersi l’estate appieno e allo stesso tempo con delle riserve.
“Io e mio marito non abbiamo mai fatto scorte di cibo”, racconta Bianca Fürstenberg, “ma adesso ho latte in polvere per almeno otto settimane”. Per ogni evenienza è anche andata a controllare dove fosse finito il suo zaino, quello grande, in cui entrerebbero provviste, caricabatterie e vestiti.
“Per ogni evenienza” è un’espressione che sta usando spesso. L’ultima volta che ha preso lo zaino invece è stato per un viaggio in Thailandia. Neanche quattro anni fa, ma le sembra un’eternità. ◆ sk
Gli autori di questo articolo sono Nadine Ahr, Peter Dausend, Caterina Lobenstein, Friederike Oertel, Ricarda Richter, Jana Simon, Henning Sußebach, Claas Tatje, Stefan Willeke, Ann-Kristin Tlusty e Marcus Rohwetter.
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Questo articolo è uscito sul numero 1470 di Internazionale, a pagina 52. Compra questo numero | Abbonati