Il canone del jazz corale è snello ma profondo. Si nutre di situazioni opposte – la messa della domenica mattina e il jazz club del sabato sera – e mescola il gospel con l’hard bop. Nei primi anni sessanta ci furono album come It’s time di Max Roach e Black Christ of the Andes di Mary Lou Williams, e in seguito il genere ha avuto diverse incarnazioni. Nel 2022 però sono emersi nuovi aspetti del jazz corale: ce n’erano alcuni nell’ultimo album dei SAULT, Air, così come nel recente lavoro di Kendrick Lamar insieme a Duval Timothy in . Ma soprattutto sono presenti nel recente disco Group theory: Black music del percussionista e compositore sudafricano Tumi Mogorosi. “Non sono cresciuto cantando nel coro della chiesa, la mia prima interazione con la musica è stata attraverso un gruppo di ottoni che suonava di fronte a casa di mia nonna. Solo dopo, al liceo, ho fatto parte di un coro”, dice Mogorosi in collegamento video dal suo salotto a Johannesburg. “La voce è in grado di dare energia alla band, di mantere viva una tensione costante. Attorno a quel centro si muovono la batteria e le percussioni”, aggiunge. Per la maggior parte dell’album, le voci rimangono astratte e senza parole definite, accentuando il tono drammatico di brani come Panic manic e At the limit of the speakable. “Volevo creare un paesaggio sonoro che portasse l’ascoltatore nell’inconscio della comunità nera”, spiega.
Andy Beta,
Bandcamp daily
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1477 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati