Da quando i Big Star spuntarono con #1 Record, musicisti di ogni tipo – band pop con chitarre sbrindellate, punk di mezza età e shoegazer diventati sobri – hanno trovato nel power pop un modo per omaggiare tutti i cuori infranti con armonie e ritornelli. E allora prendiamo il grande nuovo album degli Alvvays come un’ulteriore valorizzazione di questa tendenza. Chiamatelo come volete, power pop, dream pop, non importa: gli Alvvays sono solo una band di Toronto che incarna quello spirito, facendolo tutto suo. Anche se hanno cominciato a scriverlo nel 2017, una serie di eventi sfortunati – alluvioni, furti, problemi di visti e la pandemia – hanno ritardato la registrazione fino all’anno scorso, quando finalmente il gruppo è entrato in studio con il produttore Shawn Everett, veterano che ha già lavorato con Alabama Shakes, The War on Drugs e Killers. E così gli Alvvays si sono ritrovati con un disco in grado di esprimere tutto il loro splendore. Ogni canzone è una festa, creata senza sforzi; un’immersione nella storia del pop e del rock, con uno sguardo in quell’abisso che il futuro potrebbe essere. Quello che distingue Blue rev da altri lavori ispirati dai turbamenti adolescenziali è la scrittura della cantante Molly Rankin, che attinge dal subconscio e da elementi iperrealisti. Segue un’idea, un’emozione ma poi ci coglie in contropiede, scegliendo svincoli e inversioni che ci trascinano nella caos della vita. Blue rev procede tra il sublime e il malato, prima ti coccola e subito dopo ti prende a legnate. Ma tutto fila giusto, nulla sembra sbagliato e questa in fondo è una delle regole del pop che gli Alvvays sanno rendere nuove.
Jeremy D. Larson, Pitchfork
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Questo articolo è uscito sul numero 1482 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati