Il 16 ottobre è cominciato il secondo mese delle proteste scoppiate dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata dalla polizia religiosa perché accusata d’indossare il velo in modo scorretto. Nel corso della giornata ci sono state grandi manifestazioni in tutto l’Iran, ma l’epicentro della rivolta continua a essere nelle città del Kurdistan iracheno. A Teheran si sono mobilitati gli studenti, i commercianti e gli ambulanti dei bazar, oltre ai familiari dei detenuti nel carcere di Evin, dove il 15 ottobre è scoppiato un incendio.
Le autorità hanno annunciato che otto detenuti sono morti e sessanta sono rimasti feriti. Per tutto il giorno seguente familiari e amici si sono radunati davanti al carcere per cercare di avere notizie sulle condizioni dei reclusi.
Cosa sia successo nelle sezioni 7 e 8 di Evin non è ancora chiaro. Il numero di persone in quelle sezioni, dove si trovano anche gli oppositori politici fermati durante le manifestazioni di questi giorni, è il più alto di tutto il carcere. Non si sa quali siano le condizioni attuali. Anche i familiari dei detenuti di altre sezioni, tra cui quella femminile, faticano a comunicare con chi è all’interno. Le telefonate autorizzate durano meno di un minuto e il permesso per i colloqui è stato sospeso. Radio Zamaneh ha raccolto alcune testimonianze di chi è riuscito a contattare i detenuti: “Tutte le sezioni sono sovraffollate, ci sono problemi igienici, cibo e medicinali scarseggiano, e i posti letto sono inadeguati e insufficienti”, ha raccontato uno di loro. “Alcuni detenuti rimasti feriti negli scontri del 15 ottobre non sono stati soccorsi”, ha detto un altro.
Heshmatollah Hayat al Ghayb, direttore delle carceri nella provincia di Teheran, il 16 ottobre ha dichiarato all’agenzia di stampa Irna, controllata dal governo, che i prigionieri nella sezione 7 avrebbero appiccato l’incendio per evadere. Le fiamme si sarebbero poi diffuse nel vicino laboratorio tessile e le forze di sicurezza sarebbero intervenute per sedare i disordini.
Alcuni prigionieri politici sono stati trasferiti in un altro carcere vicino a Teheran. Molti hanno raccontato di essere stati picchiati. Sepideh Qolian, prigioniera politica nella sezione femminile di Evin, il 16 ottobre ha detto che in carcere si respira un clima di guerra. Durante l’incendio, ha riferito, alcuni prigionieri hanno cercato “riparo dalle fiamme, ma i cecchini hanno sparato proiettili e gas lacrimogeni”.
Serrande abbassate
Dal 16 settembre le città del Kurdistan iraniano sono state l’epicentro delle proteste. A Saqqez, la città di origine di Mahsa Amini, la mobilitazione è andata avanti tutta la notte del 16 ottobre. Secondo l’organizzazione Kurdistan human rights network, dall’inizio delle proteste almeno 35 persone, tra cui cinque bambini, sono state uccise dalle forze di sicurezza nelle città della provincia. I curdi arrestati, invece, sono più di duemila.
Il 16 ottobre è stata una giornata di proteste anche a Yazd, nel centro del paese, e a Teheran. In mattinata nella capitale si è mobilitato un gruppo di venditori ambulanti a cui si sono uniti alcuni commercianti. Le forze di sicurezza hanno attaccato la folla con i lacrimogeni. Il bazar di Shush, nella zona sud di Teheran, è un labirinto di negozietti che vendono cristalli, porcellane e oggetti vari. Gli ambulanti sono soprattutto lavoratori a giornata, che rivendono i piccoli oggetti di poco conto comprati in giro. In questa zona la partecipazione delle donne alle manifestazioni non è stata alta, ma sono state soprattutto loro a riprendere, dalle finestre dei loro appartamenti, gli attacchi delle forze di sicurezza. Nei giorni precedenti c’erano stati raduni simili in altre zone della capitale, perfino nel Gran bazar, durante i quali molti negozianti hanno abbassato le serrande per solidarietà.
L’apparato repressivo non ha risparmiato nemmeno le case dei cittadini, contro le quali sono stati sparati gas lacrimogeni e raffiche di proiettili, per evitare che i manifestanti potessero trovarvi riparo. Quest’abitudine della polizia, ben nota ai commercianti, è un altro motivo per cui si abbassano le serrande appena c’è aria di disordini. Il fatto che negozianti e cittadini si uniscano alle proteste ha un grande effetto sul paese, perché significa che quella nata come una rivolta delle donne coinvolge un numero sempre maggiore di gruppi e classi sociali.
Il quartiere di Shahrak Ekbatan, una zona ricca e progressista cinque chilometri a ovest della capitale, è diventato famoso per gli slogan antigovernativi. Per questo le sue strade sono piene di poliziotti. Ma il 16 ottobre gli abitanti si sono radunati lo stesso intonando: “I prigionieri politici vanno liberati”, “Morte al dittatore”. La maggior parte delle donne non indossava il velo. Molte camminavano mano nella mano. Un anziano ha paragonato la rivolta attuale al movimento verde, scoppiato nel 2009 contro la rielezione del presidente Mahmoud Ahmadinejad: “Anche allora ci riunivamo qui. Ma ora è diverso. A quel tempo speravamo che qualcosa sarebbe cambiato. Ora non più. Due dei miei figli sono scesi a manifestare. So che potrebbero morire, ma non riesco a fermarli. Io stesso sono qui. A Teheran la maggior parte delle persone è povera e pensa a non morire di fame. Chi, come me, manifesta pur non avendo problemi economici, lancia un messaggio forte”. Un altro partecipante ha spiegato: “Per sicurezza nessuno si porta più il telefono. Se ce l’hai e la polizia ti arresta, ci trova di tutto”. Di solito, quando arrivano gli agenti i manifestanti si disperdono, per incontrarsi di nuovo in un posto diverso.
Mano nella mano
La rivolta degli studenti è stata importante fin dall’inizio. Ci sono stati scioperi e boicottaggi delle lezioni in più di cento atenei del paese, e in almeno cinquanta sono state organizzate manifestazioni una o due volte alla settimana. Oggi la protesta è ovunque e quotidiana. Lo stato ha aumentato la repressione, ma gli studenti hanno alzato il livello di resistenza. Il 16 ottobre gli universitari di Teheran si sono uniti alla protesta in corso nel resto della città, intonando gli slogan: “Non è solo per oggi, noi lottiamo ogni giorno”, “Basta insegnare la violenza a scuola” e “Basta velo, basta botte, uguaglianza e libertà”. I poliziotti hanno fermato molti ragazzi, usando manganelli e taser.
Riprendere gli studenti è una delle nuove tecniche delle forze di sicurezza. Ovunque ci sia un sit-in spuntano gli agenti in borghese con videocamere e telefoni. In questo modo possono raccogliere dati e diffondere la paura, aumentando il senso di controllo da parte dello stato.
All’università di Soore, a Teheran, le forze di sicurezza hanno fatto irruzione durante un corteo, hanno sequestrato i telefoni di alcune ragazze senza velo e le hanno picchiate. Le studenti delle università femminili di Teheran hanno cantato: “Siamo tutte Mahsa e risponderemo alla violenza con la violenza”. Gli studenti dell’accademia delle belle arti di Teheran hanno organizzato una protesta simbolica: si sono seduti per terra e hanno cominciato a cantare. Uomini e donne si tenevano per mano per chiedere d’interrompere ogni forma di segregazione di genere nelle università iraniane. ◆ av, mv
Radio Zamaneh (“epoca”, in persiano)è un sito in persiano con sede ad Amsterdam, nei Paesi Bassi. Creato nel 2006 e finanziato dal parlamento olandese, pubblica analisi, reportage e commenti rivolti in particolare ai giovani iraniani. Sostiene i diritti umani e le attività della società civile iraniana.
◆ Il 17 ottobre 2022, a un mese dall’inizio delle proteste scoppiate per la morte di Mahsa Amini, una ragazza arrestata dalla polizia religiosa perché accusata d’indossare il velo in modo scorretto, l’ong Iran human rights, con sede a Oslo, in Norvegia, ha fatto sapere che almeno 215 persone, tra cui 27 minori, sono state uccise dalle forze di sicurezza iraniane. Secondo l’ong Human rights activists in Iran, più di ottomila persone sono state arrestate in 111 città. Centinaia di loro sono state mandate nel carcere di Evin: non solo manifestanti, ma anche giornalisti, intellettuali, attivisti, artisti e avvocati.
◆Il 19 ottobre Elnaz Rekabi, l’atleta iraniana che tre giorni prima aveva partecipato ai campionati asiatici di arrampicata sportiva di Seoul, in Corea del Sud, senza indossare il velo, è stata accolta da una folla di sostenitori al suo arrivo all’aeroporto di Teheran. Il 18 ottobre Rekabi aveva pubblicato su Instagram un video in cui si scusava per “i problemi causati” e spiegava che l’hijab le era caduto “inavvertitamente”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1483 di Internazionale, a pagina 28. Compra questo numero | Abbonati