Un romanzo straordinario su due donne straordinarie, sui libri che scrissero e su come quei libri sono sopravvissuti. Nel 1934, mentre cercava una pallina da ping pong nella casa del tenente colonnello William Butler-Bowdon, un ospite s’imbatté nell’unico manoscritto completo del Libro di Margery Kempe, la prima autobiografia in lingua inglese. Nata nel 1373, Margery Kempe, un tempo produttrice di birra, ebbe delle visioni di Cristo che la spinsero a intraprendere una serie di pellegrinaggi sconclusionati e avventurosi in Terra Santa, a Santiago de Compostela e in Prussia. Vestiva di bianco, come una vergine, nonostante avesse almeno quattordici figli. Fu processata più volte per eresia, ma riuscì sempre a ribattere con successo alle accuse. Nel suo romanzo d’esordio Victoria MacKenzie ha distillato questa vita caotica in un resoconto meravigliosamente lucido di un’avventura spirituale. La Margery che emerge è vanagloriosa, vulnerabile, coraggiosa, confusa, sboccata, libidinosa, attenta e impossibile da non amare. Ma la sua non è l’unica storia. La ricerca errante di Margery orbita attorno alla vita dell’anacoreta Giuliana di Norwich, confinata in una minuscola cella, che di fatto visse nella sua stessa tomba. Mac-Kenzie si cala nella mente di chi ha deciso di vedere poche cose, ma intensamente. Molto è stato scritto sulle due donne, ma le loro scelte sono spesso liquidate come una sorta di malattia mentale o una protesta contro il patriarcato. Mac-Kenzie le affronta come due donne che cercano di risolvere il conflitto tra autorità ed esperienza. Ognuna di loro ha avuto una visione che freme per condividere. Ma vivono in un momento in cui qualsiasi deviazione dall’ortodossia può provocare una terribile punizione.
Frank Cottrell-Boyce, The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1509 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati