Con Babysitter, Joyce Carol Oates esplora la paranoia della classe media bianca statunitense alle prese con le minacce esterne che avverte per i suoi figli, le sue donne e la sua ricchezza, ma anche con i pericoli ancora più gravi che provengono dall’interno. Siamo a Detroit nel 1977. Mentre la città si sta ancora riprendendo dalle rivolte razziali di un decennio prima e sta sperimentando gli inizi della gentrificazione urbana, è colpita da una serie di brutali omicidi di bambini da parte di un criminale noto come Babysitter. I bambini, spesso orfani o in affidamento, e tutti bianchi, scompaiono e giorni dopo sono ritrovati morti, sdraiati come angeli, con le braccia incrociate sul petto e i vestiti puliti e lavati accanto a loro. Parallelamente, Hannah, una casalinga che indossa abiti di Dior, intraprende una relazione con un uomo misterioso conosciuto solo con le iniziali YK. Questo è un romanzo intriso di violenza verso i più vulnerabili, tutti nelle mani di uomini crudeli e dominatori. Anche dopo che YK l’ha violentata e quasi soffocata con un cuscino, Hannah pensa a lui come al suo amante, con tutta la tenerezza che questa parola implica. Arriva a mentire per difenderlo e nascondere la sua relazione con lui. Nel corso della narrazione s’intrecciano tensioni razziali e di classe. Nonostante l’orrore della storia, l’abilità narrativa di Oates e la sua maestria nella prosa creano uno studio avvincente sugli aspetti più brutti del desiderio umano.
Kimberley Long, Financial Times
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1516 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati