La fuga di William Atkins verso i deserti non va considerata come scoperta ma come recupero, il suo è un impulso ascetico. Atkins ama i deserti per la loro austerità e per la chiarezza di pensiero che garantiscono. Dall’Oman all’Australia, dalla Cina all’Arizona, i deserti gli offrono allegorie del maltrattamento del pianeta da parte dell’umanità. Nei capitoli ambientati negli Stati Uniti il libro decolla, forse perché l’affinità culturale è tale che la scrittura di viaggio di Atkins cede a qualcosa di più simile all’antropologia. Vagando nel deserto dell’Arizona con l’associazione No more deaths, lascia pacchi con prodotti per la sopravvivenza agli immigrati messicani irregolari, poi li segue fino al tribunale in cui, centinaia al giorno, sono condannati al rimpatrio. Ci sono poche donne in Un mondo senza confini: per Atkins, così come lo fu per sant’Antonio, il deserto è il luogo in cui allontanarsi dal genere femminile. Nel capitolo finale l’autore va a piedi alla chiesa-santuario di Sant’Antonio nel deserto orientale dell’Egitto. Lì le tensioni che il libro crea tra la vita e la morte, l’aridità e la fertilità, l’umido e il secco, l’amato e l’amante, cominciano a sciogliersi.
Gavin Francis, The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1521 di Internazionale, a pagina 77. Compra questo numero | Abbonati