L’azione principale di Un’isola si svolge nell’arco di quattro giorni, ma in questo lasso di tempo la sudafricana Karen Jennings riesce a comprimere la turbolenta storia di un paese africano senza nome e i suoi effetti disastrosi sulla vita di Samuel. Guardiano del faro in un esilio autoimposto su una piccola isola, il settantenne Samuel cura il suo orto e le sue uniche compagne sono delle galline. Ma è chiaro fin dall’inizio che non è tutto sereno su quest’isola. Nel giardino giacciono corpi sepolti giunti a riva nel corso degli anni. Il significato dell’interramento meticoloso di ognuno di loro da parte di Samuel si scoprirà più avanti: questo è un libro di rivelazioni graduali e ambiguità insolubili. Il romanzo si apre con il ritrovamento di uno di questi corpi, a differenza degli altri ancora vivo. Le emozioni contrastanti di Samuel nei confronti del sopravvissuto si fondono con i ricordi sempre più invadenti del suo passato poco onorevole sulla terraferma e riflettono l’attuale discorso sui richiedenti asilo. Jennings crea un abile equilibrio tra la tesa claustrofobia dell’isola e la storia di Samuel, cresciuto in un paese in cui l’indipendenza ha soppiantato il dominio coloniale, per poi sfociare in una dittatura militare. Per aver partecipato a una rivolta contro il dittatore, passa venticinque anni in carcere, nonostante le sue denunce di routine a danno dei compagni, senza risparmiare neanche la sua amante. Lo straniero sull’isola, quindi, è un simbolo di riparazione e di possibile redenzione per Samuel. Un’isola è un libro piccolo ma potente, con la portata di un’opera più grande, che unisce una critica politica spietata a un’allegoria resa in una prosa tenera.
Catherine Taylor,The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1526 di Internazionale, a pagina 79. Compra questo numero | Abbonati