Rodrigo Fresán si cala in quel centro di gravità permanente che è l’autore di Moby Dick. Lo fa attraverso un romanzo immaginario su Allan Melvill, padre di Herman, mercante, viaggiatore, con un pedigree promettente ma assalito da una serie di disgrazie. Allan muore giovane e indebitato, al punto che la sua vedova elimina la “e” dal cognome per dissociarsene. L’autore combina un resoconto enciclopedico e misurato con inserti o note a piè di pagina piene di licenze, spazi in cui Herman parla per chiarire, impostare la scena o semplicemente sproloquiare. Immagina il ragazzo Herman ai piedi del letto del padre che prende appunti, mentre Allan, legato, monologa in una stanza di ospizio: una serie di deliri, metafore gelide e figure spettrali che corrono verso un orizzonte biancastro. Nell’ultimo capitolo di Melvill, il figlio esaudisce la richiesta del padre e lo slega. A un certo punto si legge: “I morti che si prendono cura di noi perché noi ci prendiamo cura di loro e che spesso cerchiamo di dimenticare per poi renderci conto che non ci dimenticano e che non fanno altro che ricordarci che non possiamo mai dimenticare”, ed è in questa chiave che si può leggere l’intrepida rapsodia di Fresán, la sua visione della “balena bianca” della morte, che ci mobilita e insieme ci spaventa.
Mariano Vespa, La Nación
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Questo articolo è uscito sul numero 1530 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati