Nel suo nuovo album, il cantautore statunitense Sufjan Stevens vede se stesso come una persona in rovina in un mondo meraviglioso. Quando è amato il suo dolore è sospeso, ma questa misericordia ormai appartiene al passato. Un profondo nichilismo dà forma al suono e alle storie di Javelin, ma il banjo di Stevens ci aiuta a non annegare. Con una sensibilità che ricorda i Beatles, la dolorosa apertura Goodbye evergreen, dedicata al compagno Evans Richardson IV, morto ad aprile, è un grido di aiuto, come una pioggia violenta su un letto di ninfee. In A running start, la cadenza di Stevens ha lo scintillio di una favola sdolcinata. Genuflecting ghost trova la libertà nell’affrontare gli orrori (“Now we dance in our catastrophe”) e Shit talk, che dura otto minuti, lancia un’ultima supplica: “Stringimi forte per non cadere”. Distillando con grazia il disprezzo verso se stessi, Javelin ha un effetto straziante sull’ascoltatore. Nessuno vive il dolore come Sufjan Stevens.
Lucy Fitzgerald, The Skinny
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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati