Con Anatomia di una caduta, il suo quarto lungometraggio vincitore della Palma d’oro a Cannes, Justine Triet fa un film giudiziario non tanto per giocare sulla suspense quanto per perfezionare il suo stile, che non è mai sembrato così vicino alla perfezione. Ci sono frasi pronunciate e tagliate a metà, rubate alle nostre orecchie e a quelle dei personaggi come prove confuse. E quando un testimone distoglie l’attenzione, il giudice gli dice: “Parli bene alla corte, per favore”. È una frase perfetta per descrivere un film in cui si dialoga senza capirsi né “ascoltare”. Del resto, non è tanto una caduta quanto uno zampillo quello che Triet si sforza di filmare. Qualcosa, infatti, “è venuto fuori”: ricordi dell’imputato e dei testimoni che rivedevano le immagini della loro vita, indizi per cercare di scoprire cosa c’è di “chimicamente incasinato” nella coppia Samuel e Sandra, deposito di una realtà coordinata con la misoginia ordinaria (la donna di successo, una colpevole ideale). Ancor prima che il marito, un fantasma astuto, sia ritrovato con la testa sanguinante nella neve, tutto in Anatomia di una caduta suggerisceche stiamo già vedendo dei provini. È un film tentacolare sulla coppia, sulla famiglia e più in generale sull’animo umano.
Marilou Duponchel, Les Inrockuptibles
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Questo articolo è uscito sul numero 1535 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati