L’ultimo film di Ridley Scott può essere visto come una dimostrazione di autostima napoleonica, visto che porta a termine l’impresa mai riuscita a Stanley Kubrick e si presta al paragone con la pietra miliare di Abel Gance del 1927. Senz’altro Napoleon conferma lo status di Scott come generale cinematografico al comando di legioni di attori e tecnici: nella ricostruzione delle battaglie, le riprese aeree e il grande schermo trasmettono un senso preciso delle formazioni militari e degli schieramenti.
E portandoci nel vivo dello scontro il film non nasconde le carneficine dietro i nomi di luoghi leggendari. Ad Austerlitz uomini e cavalli affondano nell’acqua gelida striata di sangue; durante l’assedio di Tolone il volto di Bonaparte è coperto dagli schizzi di sangue del suo cavallo morto in una pozza d’interiora. In alcuni momenti Joaquin Phoenix sembra prendere spunto dalla solennità di Albert Dieudonné protagonista dell’opera di Gance. Ma il film prende una sua strada per umanizzare il personaggio: questo Bonaparte aderisce avidamente al suo mito, ne è ciecamente schiavo, come chiunque altro. A fargli da contrappunto c’è la seduzione vagamente sordida di Josephine. In conclusione Phoenix non dà mai davvero vita a un personaggio a tutto tondo, un’impresa impossibile, ma riesce comunque a fornire elementi che lo arricchiscono. Forse è più facile il compito di Vanessa Kirby, prototipo estremo della moderna moglie trofeo. A parte loro due non c’è spazio per nessun altro, con l’esclusione forse di Rupert Everett nei panni del duca di Wellington. Ma la vera terza star del film è il cappello, inizialmente indossato con una diagonale un po’ sbarazzina. Il momento in cui Napoleone lo raddrizza può essere tranquillamente considerato l’inizio della sua formidabile carriera e del suo terribile bilancio umano, ricordato nei titoli di coda.
Jonathan Romney, Sight and Sound
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Questo articolo è uscito sul numero 1539 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati