Per la seconda volta negli ultimi anni, il rapper newyorchese Busta Rhymes ha pubblicato un nuovo album in studio. Blockbusta è uscito il 24 novembre, poco più di tre anni dopo il precedente lavoro Extinction level event 2: The wrath of God, che aveva dato il via a una nuova era nella carriera del veterano dell’hip-hop. Presentando il disco con un post su Instagram, Busta Rhymes aveva scritto: “Aspetta di sentire come cambieremo la cultura con questo album”. Tuttavia Blockbusta non soddisfa assolutamente queste aspettative. Invece di essere un ascolto significativo e illuminante, queste 19 canzoni, che durano in tutto un’ora, per la maggior parte del tempo sono incoerenti, indecise e bizzarre.
Nei brani prodotti da Swizz Beatz, Timbaland e Pharrell Williams, che includono The statement, Roboshotta, Tings e The return of Mansa Musa, Busta Rhymes sembra non seguire una direzione precisa. Per la maggior parte del disco, il rapper trae ispirazione da generi come l’afrobeat, la drill britannica, il dancehall, il reggaeton e la trap. Ma nella maggior parte dei casi le idee non sembrano essere state lavorate a fondo, il che fa sì che la maggior parte delle tracce sembri il segmento di una canzone invece che una canzone vera e propria. Ci sono ancora momenti che ricordano il motivo per cui la gente si è innamorata di Busta Rhymes anni fa, che si tratti del suo flow eccentrico in Remind ’em, registrata con Quavo, o della sua performance energica in Hold up. Ma questi lampi non mascherano la scarsa qualità di Blockbusta.
Thomas Galindo, American
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Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati