Al giorno d’oggi gran parte della cultura è disponibile subito ed è come ricevere arte da un rubinetto per l’acqua. Quindi è stata una mossa insolita da parte di Peter Gabriel quella di pubblicare il suo ultimo album – il primo disco in studio da vent’anni – a spezzoni, una traccia ogni quattro settimane. Ogni brano era accompagnato da opere d’arte commissionate a nomi come Ai Weiwei e Cornelia Parker ed era disponibile in due mix leggermente diversi: quello del “lato oscuro” di Tchad Blake e quello del “lato luminoso” di Mark “Spike” Stent. È stato come un ritorno ai tempi delle grandi serie tv, quando passavamo giorni ad aspettare l’episodio successivo. Ora, ascoltando tutti i pezzi insieme, è evidente come I/O passi costantemente da uno stato di rovina a uno di positività. L’album comincia con canzoni sulla giustizia globale e la sorveglianza di massa, e si conclude con canti d’amore e appelli alla saggezza. I/O è come una compilation di Peter Gabriel, nella quale i suoi aspetti migliori vengono rielaborati in modo del tutto originale. La batteria pesante delle canzoni distopiche di apertura come Panopticom e The court tracciano paralleli con i brani più pesanti del suo terzo album, del 1980, come Intruder e No self control. Road to joy è un fantastico pezzo di funk digitale sulla scia di Shock the monkey e Big time; e chiunque ami le ballate di Gabriel adorerà So much. Ci sono momenti in cui il suo implacabile utopismo può sembrare banale. Ma non è grave: è bello vedere un artista storico che guarda sempre al futuro e produce uno dei dischi più gioiosi della sua carriera.
John Lewis, Uncut

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Questo articolo è uscito sul numero 1541 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati