La giornalista Rachel Aviv nell’introduzioine di Stranieri a noi stessi ripercorre la sua esperienza di bambina anoressica. Aviv collabora con il New Yorker e si occupa di casi difficili che hanno a che fare con salute mentale e giustizia. Ha molto senso dunque che Stranieri a noi stessi sia diviso in cinque storie di persone (Aviv è la sesta), quasi sempre statunitensi, che hanno combattuto con il disagio mentale e con i modi usati per raccontarlo. La sua forza è il reportage narrativo e le storie personali s’intrecciano con parti più teoriche: quelli di Aviv possono essere definiti dei casi clinici. Il titolo del libro è tratto dal diario di una donna di nome Hava che l’autrice aveva conosciuto da ragazzina ai tempi del suo primo ricovero per anoressia. A prima vista i cinque personaggi al centro del racconto sembrano avere poco in comune, ma la cosa che li unisce è un impulso a cercare di comprendersi attraverso la scrittura, anche se il loro scrivere va avanti all’infinito. La voce giornalistica di Rachel Aviv è esperta e affidabile e lei si muove con passo leggero. Ma ci mostra anche che la scrittura può essere un atto ossessivo. Soprattutto quando si cerca di usarla per curarsi.
Jane Hu, Vulture
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Questo articolo è uscito sul numero 1545 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati