El Salvador dimostra che livelli alti di criminalità e violenza alterano la normalità democratica. Il 4 febbraio il presidente uscente Nayib Bukele ha vinto le elezioni dichiarando di aver ottenuto più dell’80 per cento dei voti, anche se la costituzione del paese vieta di governare per due mandati consecutivi.
Bukele, 42 anni, è un esponente della destra populista e radicale molto apprezzato dai salvadoregni: la sua popolarità oscilla tra il 70 e l’80 per cento. Il motivo principale di questo successo è la sicurezza pubblica. Il paese centroamericano ha alle spalle una lunga storia di conflitti, con una guerra civile durata dodici anni e finita nel 1992 grazie a un accordo di pace con cui il gruppo guerrigliero Frente Farabundo Martí para la liberación nacional si trasformò in partito politico.
Dalla fine degli anni novanta si assiste a un aumento degli scontri tra bande criminali. Nel 2015 sono stati registrati 106 omicidi ogni centomila abitanti. Nel 2019, quando Bukele è stato eletto per la prima volta, gli omicidi erano quasi 40 ogni centomila abitanti. Ma nel 2022 erano scesi a 7,8 e l’anno scorso non hanno superato i 2,4.
Per ottenere questi risultati nel 2022 Bukele ha decretato lo stato d’emergenza (approvato da un parlamento controllato dal suo partito Nuevas ideas), in vigore ancora oggi. La misura calpesta i diritti civili, perché autorizza gli arresti senza un mandato e limita la libertà di riunione e la riservatezza della corrispondenza e delle comunicazioni. El Salvador è il paese che incarcera di più al mondo rispetto alla popolazione: il 2,2 per cento degli adulti oggi è in prigione.
La popolarità e la vittoria di Bukele rafforzeranno senza dubbio l’influenza delle sue strategie politiche nel resto dell’America Latina, dove la criminalità diffusa sfida le istituzioni democratiche. Tutto questo è pericoloso. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati