“Per diventare una scrittrice ho dovuto imparare a interrompere gli altri, a parlare chiaro, a parlare un po’ più forte, e poi sempre più forte, fino a trovare la mia voce che non è forte affatto”. Questa è la citazione che compare sulla copertina dell’edizione inglese di Cose che non voglio sapere, nato da un’iniziativa della casa editrice indipendente Notting Hill Editions che ha chiesto a diversi autori e autrici di rispondere a un saggio importante. La scrittrice sudafricana Deborah Levy ha scelto Perché scrivo di George Orwell. Cominciare a leggere la risposta di Levy è stato come trovare un’oasi nel deserto. La scrittura è di tale qualità che devi abbeverarti lentamente. Questo mini-memoir si muove attraverso tre luoghi: Maiorca (dove l’autrice si rifugia per riflettere), il Sudafrica (dove è cresciuta e dove suo padre, sostenitore dell’African national congress, è stato incarcerato) e il Regno Unito (in cui ha passato un’adolescenza da esiliata). Come Orwell anche Levy è divertente da leggere ma a differenza di Orwell è meno metodica nell’organizzazione. È brava a creare i misteri più che a dissiparli. Ma soprattutto Levy è una fuggitiva, ed è questo che dà al suo libro una sottile, imprevedibile e sorprendente atmosfera. Non si trova mai davvero in disaccordo con Orwell (lui apprezzerebbe come sa intrecciare la politica sudafricana alla sua narrazione) ma il suo trionfo arriva quando dimostra che la volontà di scrivere può non partire da una spinta razionale.
Kate Kellaway, The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati