L’ultimo libro di Tommaso Giartosio s’inserisce nella tendenza a enumerare, a fare elenchi di parole, a smarrirci in digressioni. Forse è pure un po’ inevitabile quando il testo segue un narratore che s’incanta “sulle parole, parcheggiato in doppia fila a bloccare il passaggio dei pensieri”. Autobiogrammatica ci racconta come la grammatica non sia in effetti prescrittiva ma descrittiva: le parole non sono incatenate a regole, non occupano un posto fisso nella lingua, sono invece definite dal carattere biografico del nostro linguaggio. Chiaro l’intento e il patto con il lettore sin dalle prime pagine: “C’era anche chi aveva scritto interi libri ricostruendo da un pugno di frasi la cifra della propria esistenza. Quanto a me, che potevo fare? Qualcosa di più: immaginare una vera e pro-pria autobiogrammatica che ambisse a disegnare un atlante del linguaggio di un singolo individuo: cioè del suo modo di senti-re e vivere la lingua”. Molte le citazioni e i riferimenti letterari, dall’esplicito richiamo a Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, a Nabokov, a Wittgenstein. Un libro rigoroso e ricco che analizza come segni formativi le parole che siamo stati ancora più degli eventi che abbiamo vissuto. Non la storia, non i fatti, non il corpo, ma la lingua come elemento più intimo e più veritiero della propria esistenza: l’idioletto come autobiografia. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1550 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati