La musica di Taylor Swift una volta era molto più grande di lei. Narratrice nata, ha raccolto gli effimeri emotivi della sua vita e li ha modellati in canzoni indelebili su se stessa, ma anche sulle giovani donne, i loro desideri e le loro sofferenze. Quei giorni, però, sono andati. Oggi Swift è il pan­theon di se stessa. Negli ultimi tredici mesi, ha indossato il suo body a lustrini e ha compiuto un’impresa erculea tre sere a settimana nel tour dai più grandi incassi di tutti i tempi, guadagnandosi la valutazione di un miliardo di dollari. I suoi successi musicali sono notevoli. Ma nessuno guadagna un miliardo di dollari solo dalla musica. In The tortured poets department, il suo undicesimo album in studio, si avverte il crescente divario tra Taylor Swift l’artista e Taylor Swift il fenomeno. Il peso delle aspettative è grande: questo è il primo album d’inediti di Swift dalla fine di una relazione durata anni e un paio di storie d’amore tumultuose e di alto profilo, una delle quali, con Matty Healy dei 1975, sembra aver fornito molta dell’ispirazione per i nuovi brani. L’edizione estesa di The tortured poets department dura più di due ore e, anche nella versione ridotta, il suo senso di espansione contamina le canzoni. La scrittura di Swift è, nei casi migliori, giocosamente sfrenata e, in quelli peggiori, molto bisognosa di un editor. Taylor Swift non ha bisogno di un intero album per raccontare la storia di una relazione: le basterebbe solo una canzone o, forse, anche solo un verso.
Olivia Horn, Pitchfork

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Questo articolo è uscito sul numero 1560 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati