Nel 2005, quando ha esposto la serie Mother’s al padiglione giapponese della Biennale di Venezia, Miyako Ishiuchi aveva 58 anni e nel suo paese era già molto conosciuta. Dalla fine degli anni settanta erano usciti già quindici suoi libri. In questa serie così commovente – composta da nature morte a colori senza effetti particolari, avvolte in una luce dolce – ha ritratto oggetti appartenuti alla madre, morta poco tempo prima. La serie l’ha resa nota a livello internazionale, permettendole di esporre nei più grandi musei di tutto il mondo.

“Tutto quello che ha una forma scompare. Il corpo umano, quando resta senza vita, non può continuare a esistere in questo mondo. È un dato di fatto, ma a volte faccio fatica ad accettarlo. È successo con la morte di mia madre, anche se è comune che un genitore muoia prima del figlio”, dice la fotografa. “Il corpo di mia madre non era più qui. Quello che lasciava dietro di sé, quello che un tempo le era vicino, era diventato inutile senza la sua presenza. Così, prima di sbarazzarmene, ho deciso di scattare delle foto a questi oggetti. Non andavo molto d’accordo con lei, ma mentre fotografavo le sue cose, mi è sembrato che la distanza tra noi gradualmente si riducesse. Tutte le cose che la riguardavano direttamente erano come una parte della sua pelle, e grazie a loro sono arrivata a sentire queste parti del suo corpo. Ho documentato il pathos della camicia senza le spalle su cui indossarla, della dentiera senza la bocca in cui metterla, del rossetto senza le labbra da disegnare, delle scarpe senza i piedi da calzare. Non avevo mai pensato al corpo di mia madre, e in quel momento lo scoprivo nel dettaglio grazie alla fotografia. Scattare una foto significa misurare la distanza che ci separa dal soggetto e rendere visibili le cose invisibili che sono sotto la superficie. Ma come potevo realizzare delle immagini che i miei occhi non potevano vedere? Così puntavo la macchina e scattavo il meno possibile. Forse non sarebbe apparso nulla. Mettevo il negativo nell’ingranditore. L’immagine negativa, fissata dalla luce, si trasferiva sulla carta, e mentre era immersa nel rivelatore, si stampava il positivo. Il tempo di attesa prima della comparsa dell’immagine era fondamentale. In questo intervallo la fotografia prende forma attraverso la contemplazione. Purtroppo le fotografie della serie Mother’s non potranno mai rimanere qualcosa del passato, perché riprendono vita ogni volta che qualcuno le guarda”.

ひろしま/Hiroshima #21 donatore: Segawa M.

Corpi e oggetti

Miyako Ishiuchi ha cominciato a fotografare in bianco e nero, per lo più nella città di Yokosuka dove è nata, e che è stata la più grande base statunitense in Giappone. Ne ha documentato, tra le altre cose, i bar e i bordelli: “C’era un centro militare a Yokohama chiamato Bayside Court. Il quartiere ospitava alloggi, scuole, un ospedale, una chiesa, un supermercato e un teatro. Era un luogo in cui si viveva come in America […]. Mia madre era stata assunta come autista di una jeep della base statunitense, per trasportare soldati tra Yokosuka e Yokohama”, racconta Miyako Ishiuchi-

ひろしま/Hiroshima #37F donatore: Harada, A.

Nel 1969 durante le proteste studentesche contro la guerra in Vietnam, in Giappone fu attivo un movimento di rivolta molto fotografato che bloccò le università per chiedere una riforma dell’amministrazione universitaria e la fine dell’influenza statunitense nella regione. Miyako Ishiuchi partecipò a quelle lotte e fondò con due amiche uno dei primi gruppi femministi del paese. Da allora ha cominciato a costruire un lavoro molto particolare, che mescola testimonianza, documentario e introspezione.

Frida by Ishiuchi #7. Entrambe dalla serie Frida by Ishiuchi

Il suo primo libro, Apartment, pubblicato nel 1978, raccoglie le immagini di una piccola stanza in un vecchio appartamento, simile a quello dove era cresciuta in un palazzo popolare del dopoguerra, con il pavimento in terra battuta e il bagno in comune. L’anno dopo il libro vinse il premio Kimura Ihei. È stata la prima donna a ottenere questo importante riconoscimento, diventando la figura principale di un femminismo nascente in un paese in cui la parità di genere è problematica; per di più in un mondo, come quello della fotografia, che all’epoca era esclusivamente maschile.

Le tracce che il tempo infligge ai corpi e agli oggetti e la sensazione del suo passaggio ineluttabile sono al centro del lavoro di Ishiuchi Miyako. Nel 1984 ha fotografato con una Polaroid in grande formato i suoi compagni di liceo di vent’anni prima; poi nel 1990 ha pubblicato 1.9.4.7, una serie di primi piani di mani e gambe di donne nate nel suo stesso anno. La serie successiva, Scars, raccoglie cicatrici e segni del corpo umano: “Quando ho guardato per la prima volta una cicatrice ho pensato subito alla fotografia. Mentre una persona spera di rimanere integra lungo tutto il corso della propria vita, spesso dobbiamo sopportare e vivere con ferite visibili e invisibili, con un’impronta del passato che fa parte del corpo. Quando penso alle parti del corpo dove il tempo si accumula di più, mi vengono subito in mente le mani e i piedi. Scattando delle foto si finisce per fotografare delle superfici, ma io non fotografavo le mani e i piedi, fotografavo qualcosa di invisibile a occhio nudo, qualcosa al di là delle immagini stesse”.

Frida by Ishiuchi #34

La scoperta di Frida Kahlo

Dopo aver visto le foto della serie Mother’s, nel 2007 il Museo commemorativo della pace di Hiroshima ha invitato Miyako Ishiuchi a fotografare oggetti che conservavano le tracce del bombardamento atomico sulla città del 1945. Il titolo di questa serie ひろしま/Hiroshima, comprende la parola Hiroshima scritta in hiragana, un sistema di scrittura giapponese che si traduce con “mano di donna” e che era storicamente usato dalle donne. Miyako ha fotografato per lo più oggetti appartenuti a donne e che erano stati in contatto diretto con il loro corpo. Privi di ogni contesto, con uno sfondo bianco su una scatola luminosa che lascia vedere le trasparenze, senza alcuna drammatizzazione né compassione, gli oggetti sono testimoni silenziosi, ma impongono la loro presenza straziante. “Si tratta di oggetti che appartenevano a delle ragazze e che la gente non sopporta più di averle con sé. Queste persone non riescono a sopportarli da soli, così li portano al museo, per fare in modo che possiamo sopportarli tutti insieme. Di solito questo genere di storia si perde. Non ho voluto fotografare i vestiti portati dalle vittime come semplici artefatti”.

Con un approccio simile, Miyako Ishiuchi è andata a Città del Messico nel 2021, su invito del museo della Casa Azul dove ha vissuto Frida Kahlo, per confrontarsi con gli oggetti personali della pittrice scoperti dal pittore e marito Diego Rivera dietro una porta murata dopo la morte dell’artista. “Non mi ero mai molto interessata a lei”, dice la fotografa. “Ma quando sono andata in Messico ho scoperto che il suo lavoro mi piaceva molto, in particolare i suoi disegni, che sono molto delicati. Era la vita quotidiana di una donna particolare, ma in un certo senso anche della vita in quanto tale. Si è sempre parlato di lei come di una donna forte, determinata e passionale. Ma è solo un aspetto della sua personalità, nessuno sa come fosse veramente Frida Kahlo nella vita di tutti i giorni. Nel vedere le sue cose questo aspetto mi ha colpito molto”.

Miyako Ishiuchi ha fotografato vestiti, corsetti, gioielli, scarpe come un ritratto al tempo stesso proveniente dall’aldilà e perfettamente presente, curioso e rispettoso, intenso e discreto. Un’incredibile dimostrazione di potenza degli oggetti più semplici. “Le foto non possono sfuggire al loro destino di documento commemorativo del passato. Avendo presente questo elemento immutabile, che permette di rivalutare il ruolo della fotografia nella sua duplice natura – di menzogna e di verità, di bellezza e di bruttezza – ho voluto risuscitare gli edifici della mia infanzia, non per dimostrare che erano veramente a Yokosuka e Yokohama, ma per mostrare il sogno senza fine di questa serie. Non dimentico questa immagine fantasma che ho colto alla fine della mia adolescenza”.

Il tempo, sempre e comunque. “Il tempo è un’accumulazione. Ormai ho più di settant’anni e questo mi sconvolge. Come concepire lo scorrere di settant’anni? Davanti a me non ho più un lungo futuro, forse ancora vent’anni. So che sono sul punto di scomparire. Diventa quindi ancora più necessario per me dare importanza al tempo. Scattare una foto significa fissare il tempo presente. E per farlo, mi interessa solo fissare il tempo nel suo accumularsi”. ◆ adr

Il festival e i libri

◆ Le foto di Miyako Ishiuchi sono in mostra alla sala Henri Conte di Arles, in Francia, nell’ambito dei Rencontres d’Arles, fino al 29 settembre. La mostra, intitolata Belongings, è stata realizzata grazie al sostegno di Kering/Woman in motion e in collaborazione con Kyotographie, il festival internazionale di fotografia di Tokyo. Tra i libri della fotografa, in molti casi andati esauriti, è ancora disponibile quello pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Kehrer in occasione dell’assegnazione del premio della fondazione Hasselblad, e la versione in lingua inglese dell’opera collettiva Femmes photographes japonaises, des années 1950 à nos jours (Textuel 2024), pubblicata da Aperture.


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Questo articolo è uscito sul numero 1570 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati