Puntigliosamente educata e garbatamente offensiva, l’autobiografia di Quentin Crisp oggi ci fa sussultare. Crisp racconta la sua vita di provocatore omosessuale, uno struzzo favolosamente piumato con gli occhi bistrati. Quando camminava per le strade di Londra sembrava voler attirare apposta sberleffi e attacchi anche violenti. Negli anni venti del novecento, quando Crisp decise di esibire al mondo il suo peccato, erano ben poche le persone disposte a capirlo. “L’esibizionismo è come una droga”, dice, e una volta che lo si era provato non era possibile tornare a nascondersi, neanche nello stato di povertà in cui si trovava Crisp, visto che nessuno era disposto a dargli un lavoro. Se lavorava lo faceva come modello o come artista commerciale e viveva in squallide stanze in subaffitto adattandosi sempre, anche perché “dopo i primi quattro anni la sporcizia non peggiora”. Crisp si descrive come il più mite degli uomini, cresciuto con la certezza di essere inferiore a qualunque eterosessuale incontrasse. Questa convinzione lo porta a una strana inversione di valori, cupa come in Jean Genet ma espressa con la leggerezza di Oscar Wilde. È un uomo che detesta i fiori a meno che non siano finti, odia gli animali perché le persone sono già cattive abbastanza e arriva alla conclusione che tutto quello che viene fatto per soldi è sacro e quello che viene fatto per amore è una sciocchezza.
Kirkus Reviews
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Questo articolo è uscito sul numero 1583 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati