A bdul Eyse ricorda bene il giorno in cui l’hanno rimpatriato. Nel luglio 2023 le forze di sicurezza turche, racconta, hanno fatto salire lui e altre centinaia di persone su degli autobus. Gli hanno fatto firmare un documento in cui dichiarava che stava tornando volontariamente in Siria, il suo paese. Ha provato a rifiutarsi, dice. Ma l’ufficiale di polizia gli ha preso la mano e l’ha costretto a mettere la firma. Appena venti minuti dopo l’hanno scaricato in Siria, dove Eyse non vuole più vivere, dove era sopravvissuto all’orrore della guerra: nel 2019 una bomba del regime siriano aveva colpito la casa di due piani in cui abitava. Era rimasto tra le macerie per ore prima di essere salvato.

La Turchia è un paese chiave nella politica migratoria europea. Si trova proprio su una delle più importanti rotte dei migranti verso l’Unione europea e ha accolto quasi quattro milioni di profughi, di cui più di tre milioni sono siriani. Per questo da anni Bruxelles paga miliardi di euro ad Ankara. L’accordo raggiunto nel 2016 tra l’Unione europea e la Turchia prevedeva inizialmente che i fondi servissero soprattutto a impedire che i profughi proseguissero il viaggio verso l’Europa e avviassero il processo d’integrazione in Turchia. Ora, però, a quanto pare i finanziamenti servono a rimpatriare persone come Eyse.

Un’inchiesta condotta da un collettivo internazionale di giornalsti rivela che, con i soldi dell’Unione, la Turchia ha messo in piedi un’enorme macchina dei rimpatri: i profughi siriani e afgani sono fermati per strada, trattenuti in condizioni talvolta disumane in centri di permanenza cofinanziati dall’Europa e deportati nei loro paesi d’origine, perfino se al governo ci sono i taliban, Assad o gli estremisti islamici.

Anche in Germania e in altri paesi europei si discute dei rimpatri in Siria e in Afghanistan, ma solo per i criminali o i sospetti terroristi. I casi sono esaminati uno per uno e sono le autorità o i giudici a stabilire se una persona corre pericoli concreti al momento del suo rientro in patria. In Turchia, invece, rivela l’inchiesta, con i fondi europei si è realizzato il sogno dell’estrema destra: chiunque può essere rimpatriato, nonostante gli eventuali rischi.

Eyse ha ventotto anni, gli occhi scuri e la barba corta. In un campo profughi a Deir Hassan, nella provincia di Idlib, nel nordovest della Siria, seduto su un divano a fiori rossi in una stanza in cui l’intonaco cade a pezzi, racconta la sua storia con voce calma. È originario di Hobait, una cittadina a circa due ore di auto da Deir Hassan. La milizia islamista Hay’at Tahrir al Sham controlla la regione. Eyse è cresciuto in una famiglia di contadini: i suoi parenti coltivavano pistacchi e olive da generazioni. Nel 2011, con l’inizio della rivoluzione siriana, è diventato un attivista: ha filmato le proteste, documentato le violazioni dei diritti umani e i bombardamenti del regime di Assad. Per molto tempo non ha voluto lasciare il paese, ma il raid aereo del 2019 gli ha fatto cambiare idea. I medici che lo hanno curato gli hanno diagnosticato un difetto alla valvola cardiaca e l’hanno mandato in Turchia per sottoporsi a delle cure. Lì la situazione dei profughi come lui era ogni anno più difficile. La crisi economica e poi il terremoto dello scorso anno, hanno fatto crescere il rancore verso i rifugiati siriani. Gli attacchi sono all’ordine del giorno. Da un po’ di tempo il presidente Recep Tayyip Erdoğan parla di “zone sicure” nel nord della Siria e di “rimpatriati volontari”.

Nel 2019 Eyse ha ottenuto un permesso di soggiorno per protezione temporanea, quello che i migranti chiamano kimlik. Ma sua moglie non l’ha avuto e anche il figlio, nato due anni dopo, è rimasto senza documenti. Eyse ha cercato varie volte di risolvere la situazione, ma invano. Negli ultimi anni in Turchia molti siriani non hanno avuto altra scelta che finire nell’illegalità. Stando ai loro racconti a volte basta un’infrazione stradale per essere espulsi. Per molti ogni contatto con la polizia è un pericolo.

Per gli afgani, il secondo gruppo di profughi più numeroso nel paese, la situazione è ancora più dura. Non ricevono quasi mai la protezione internazionale, anche se nel loro paese le donne sono oppresse dai taliban e gli oppositori sono perseguitati. Per questo i profughi vivono nella paura. Alcuni non osano più uscire in strada: fuori da ogni bar, da ogni supermercato potrebbero esserci gli uomini in uniforme.

L’unità di ricerca dei migranti irregolari è organizzata come un esercito. Dal 2023 le autorità turche usano a questo scopo una flotta di furgoni. Con i soldi arrivati da Bruxelles hanno comprato degli scanner per le impronte digitali, come dimostrano i rapporti finanziari visionati dallo Spiegel. In uno dei posti di blocco di Istanbul, i giornalisti hanno visto un veicolo a bordo del quale venivano controllati i documenti delle persone fermate. Sul retro del veicolo c’era la scritta: “Progetto finanziato dall’Unione europea”.

Quello turco è uno dei sistemi di detenzione e rimpatrio più grandi del mondo

Alla fine la famiglia di Eyse è stata condannata da una serie di casualità. Nel novembre 2022 la moglie doveva comprare delle medicine per il figlio. Davanti alla farmacia, racconta Eyse, alcuni agenti di polizia controllavano i permessi di soggiorno dei clienti. La donna e il figlio sono stati portati via. Eyse si è precipitato alla stazione di polizia. Racconta di aver discusso con i funzionari, di avergli detto che non avevano nessun diritto di trattenere la sua famiglia. Alla fine un agente ha picchiato sia lui sia sua moglie, racconta Eyse, che subito dopo ha registrato un video in cui raccontava l’episodio e lo ha messo online. Una settimana dopo è stato arrestato anche Eyse, ufficialmente per aver “calunniato” lo stato turco.

In cella frigorifera

Fuori dal centro di permanenza per il rimpatrio di Kayseri, dice Eyse, la neve era alta. Ma lui e centinaia di altri profughi sono stati fatti spogliare davanti alle mura della prigione, per essere poi portati al secondo piano dell’edificio. Eyse non dimenticherà mai il saluto delle guardie: “Benvenuti all’inferno”. Kayseri è il secondo centro di permanenza in cui è stato portato Eyse. Nel primo, ad Hatay, le condizioni erano relativamente buone.

A Kayseri, invece, lui e gli altri migranti venivano picchiati dalla polizia. Una volta alla settimana lo portavano in una cella frigorifera. A volte doveva restare lì per sei ore, altre perfino più di dodici. Anche altri due migranti che affermano di essere stati detenuti a Kayseri e Oğuzeli raccontano di punizioni nelle celle frigorifere. Secondo Eyse si tratta di tortura. Le ong gli danno ragione. I racconti di Eyse non possono essere verificati in modo indipendente, ma corrispondono in gran parte a quelli fatti da trentasette ex detenuti in ventidue campi profughi diversi finanziati dall’Unione europea con cui hanno parlato i giornalisti. Stando ai loro resoconti, i centri sono sovraffollati e privi di condizioni igieniche adeguate. Raramente i detenuti hanno accesso alle cure mediche. Trenta dei migranti intervistati hanno riferito di aver subìto percosse e altri maltrattamenti o di avervi assistito.

La maggior parte dei migranti, come mostra un rapporto dell’Unione del 2023, non può contattare un avvocato. Ma diverse ong e un’organizzazione turca per i diritti umani sono riuscite a raccogliere prove di maltrattamenti nelle strutture detentive. Attualmente i giudici stanno indagando su un caso avvenuto a Smirne, dove le guardie di un centro di permanenza avrebbero brutalmente molestato i profughi. Un video del 2021 delle telecamere di sorveglianza mostra le guardie che maltrattano i detenuti. L’avvocato delle vittime, Duygu İnegöllü, parla di “tagli e lividi” sui loro corpi. Il ministero dell’interno turco respinge le accuse.

Negli ultimi anni la Turchia ha costruito una rete di trentadue centri di permanenza per il rimpatrio diffusi in tutto il paese, di solito vicino ai confini. L’Unione europea ha sostenuto questo sistema con circa duecento milioni di euro. Secondo un rapporto del 2019, Bruxelles ha speso 1,4 milioni di euro per innalzare muri intorno ad alcuni centri. Avrebbe inoltre versato 600mila euro per nuove telecamere di sorveglianza. Il centro di ricerca Global Detention Project definisce quello turco come uno dei sistemi più grandi del mondo per la detenzione e il rimpatrio delle persone.

Ritorno a casa

La piccola città siriana di Tall Abjad si trova proprio lungo il confine con la Turchia. Il viaggio, dice Eyse, è stato breve. Dopo appena un quarto d’ora ha cominciato a vedere piccole case color sabbia. Gli agenti hanno poi scaricato lui e gli altri profughi in un posto che non conosceva.

L’autorità turca per la migrazione sostiene di rimpatriare i rifugiati siriani solo con il loro consenso. Negli ultimi otto anni sono tornati a casa più di 700mila siriani, accompagnati fino al confine. Per confutare le accuse, ora le autorità registrano dei video e chiedono ai migranti di firmare dichiarazioni scritte. L’accusa secondo cui rimpatriando qualcuno in Afghanistan lo si mette in pericolo è definita “falsa”. Per legge, nessuno potrebbe essere rimpatriato in paesi dove esiste il rischio di tortura e di trattamenti disumani o dove la sua vita e la sua libertà sono a rischio. Ma se si parla con le persone nelle zone di frontiera o con i funzionari, emerge un quadro diverso. Secondo una guardia di frontiera siriana, circa la metà dei rimpatri di siriani sono forzati. Lo stesso dicono un’altra guardia di frontiera siriana e diversi funzionari di Ankara. Un agente turco conferma esplicitamente che i rifugiati sono costretti a firmare documenti che parlano di rientro volontario. Venticinque dei trentasette migranti intervistati hanno detto di aver subìto pressioni al momento della firma.

Secondo una denuncia dell’ordine degli avvocati di Smirne sono stati rimpatriati anche cittadini afgani che rischiano la vita nel loro paese, per esempio perché hanno lavorato per organizzazioni straniere. Anche la corte costituzionale turca ha stabilito che in più di cento casi i rimpatri fatti dalle autorità turche sono illegali. “La corte continua a ripetere che ogni caso dev’essere esaminato singolarmente”, afferma Jindar Uçar, un avvocato della città di Van che rappresenta spesso i migranti. Ma nella pratica le sentenze non hanno cambiato nulla. Da queste emerge anche che nelle dichiarazioni di ritorno volontario mancano le firme dei rappresentanti dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). Le autorità turche affermano che i rimpatri avvengono sempre in presenza di osservatori, ma a quanto pare in decine di casi non è stato così.

Le organizzazioni internazionali attive in Turchia non si fanno illusioni. L’Unhcr sa benissimo che in molti casi si tratta di rimpatri forzati, afferma una persona che conosce bene il lavoro dell’agenzia. Gli operatori che aiutano i profughi cercano almeno di fare in modo che i rimpatriati possano comunicare la loro nuova residenza. L’Unhcr afferma di contattare regolarmente le autorità nei casi sospetti.

Nessuno meglio della Commissione europea potrebbe convincere il governo turco a porre fine a queste pratiche. Potrebbe tagliare i finanziamenti ad Ankara destinati ai centri di permanenza. Ma alcuni indizi suggeriscono che le azioni del governo turco potrebbero essere in linea con gli interessi europei. Tre diplomatici europei e un ex funzionario della Commissione che hanno chiesto di restare anonimi hanno segnalato alle autorità europee che potrebbero essere considerate complici nel finanziare i rimpatri illegali e i maltrattamenti dei profughi. Ma i loro avvertimenti non hanno avuto nessun effetto. Secondo l’ex funzionario le informazioni rilevanti sarebbero perfino “sistematicamente” cancellate dai rapporti annuali sulla cooperazione con la Turchia. In particolare, si dice che sia stato il commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato Olivér Várhelyi, molto vicino al primo ministro ungherese Viktor Orbán, a promuovere i rimpatri in Siria e Afghanistan. “Lo sanno tutti”, dice l’ex funzionario. “Ma chiudono un occhio”.

La Commissione europea ha dichiarato che i centri di permanenza per il rimpatrio sono stati finanziati secondo gli standard internazionali e dell’Unione. Spetta ad Ankara rispettare le proprie regole nel trattamento dei migranti. La posizione è chiara: nei rimpatri devono essere rispettati i diritti fondamentali e soprattutto il principio di non respingimento. Anche le relazioni annuali sulla Turchia contenevano chiare raccomandazioni in questo senso. Il commissario Várhelyi non ha risposto alle domande dei giornalisti.

Eyse racconta che ci sono volute settimane per andare da Tal Abjad al campo profughi di Deir Hassan. Nel frattempo è riuscito a ricongiungersi con la moglie e il figlio. Non erano stati rimpatriati, ma senza di lui non avevano un futuro in Turchia. Idlib è l’ultima provincia siriana a resistere ad Assad, ma il dittatore ha annunciato di volersi riprendere anche quella. Dal suo rimpatrio, Eyse ha già assistito a diversi attacchi aerei del regime. “Viviamo in una casa molto semplice”, dice. “E nella paura costante”. ◆ nv

Questo articolo è stato scritto da Mohannad al-Najjar, Şebnem Arsu, Mohammad Bassiki , May Bulman, Bashar Deeb, Muriel Klisc, Steffen Lüdke, Mahmoud Naffakh e Giacomo Zandonini. Fa parte di un’inchiesta di Lighthouse Reports, in collaborazione con El País, Der Spiegel, Politico, Etilaat Roz, Siraj, Nrc, L’Espresso e Le Monde.

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Questo articolo è uscito sul numero 1585 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati