Lo scrittore albanese Ismail Kadare (1936-2024) aveva più di ottant’anni quando ha scritto Quando un dittatore chiama, un lavoro in diretta connessione con un suo romanzo del 1978, Il crepuscolo degli dei della steppa, ispirato dal suo soggiorno a Mosca tra il 1958 e il 1960. È una storia che cerca di tratteggiare l’eredità culturale dello stesso Kadare ma anche quella di chiunque abbia patito sotto un sistema politico oppressivo. Ci sono momenti brillanti in questo lavoro, che però non raggiunge le vette drammatiche e narrative di suoi capolavori come Il successore o L’impedita – Requiem per Linda B. Parte di questa inconsistenza è dovuta al fatto che il romanzo sembra oscillare tra momenti d’intensa introspezione, teoria letteraria, autofiction e laboriosa ricostruzione storica. Quando un dittatore chiama si affida a un gran numero d’ingranaggi in movimento per arrivare a discutere idee enormi e molto spesso mette il carro davanti ai buoi. Più della metà del libro è impiegata nella descrizione di tredici testimonianze di una telefonata di tre minuti intercorsa tra Stalin e una persona che lui chiama Boris Pasternak il 23 giugno del 1934. Nella tredicesima ricostruzione è Kadare stesso a parlare: Osip Maldestam e gli altri scrittori che, come lui, sono stati testimoni obbligati della dittatura non sono soli. E le loro voci resteranno nel tempo.
Cory Oldweiler, Los Angeles Review of Books
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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati