Dalla fine degli anni venti del novecento e per più di mezzo secolo la stampa illustrata, in cui la fotografia e gli elementi grafici erano protagonisti, è stata il principale motore del fotogiornalismo e della fotografia di reportage. Ma con la crisi della carta stampata, la situazione dei professionisti del settore è diventata molto difficile, anche se piano piano sono emerse nuove soluzioni economiche.

Una minoranza di fotografi ha cominciato a vendere le proprie foto ai collezionisti. E per quanto riguarda la produzione, sono spesso le organizzazioni non governative (ong) a sostenere il lavoro dei fotogiornalisti: non solo gli permettono di accedere a zone di guerra o di crisi, ma gli commissionano dei progetti. Le fotografie sono poi usate per la comunicazione delle ong, per le loro pubblicazioni, e spesso arrivano anche sui giornali. Ma oggi, almeno in Francia, oltre ai committenti istituzionali, come il ministero della cultura, i comuni, i dipartimenti o le regioni, gran parte dell’attività fotografica è finanziata attraverso le residenze d’artista, le borse e i premi.

Di premi ce ne sono di tutti i tipi, quelli assegnati durante i festival, quelli attribuiti dalle scuole, quelli offerti dai produttori di materiale fotografico (oggi anche dai marchi del lusso) e quelli, infine, offerti da mecenati. È il caso del premio Carmignac, fondato nel 2009 dall’imprenditore e collezionista d’arte contemporanea Édouard Carmignac, di cui si può ammirare una parte della collezione nella fondazione che ha creato sull’isola francese di Porquerolles, nel Mediterraneo. La particolarità del premio è che non ricompensa un lavoro già realizzato, ma permette – fornendo i mezzi economici e umani necessari – di portare a termine un progetto scelto da una giuria di professionisti. Ogni anno viene presa in considerazione una determinata area geografica, un territorio problematico per ragioni ­geopolitiche, belliche o per la situazione politica interna. In passato sono stati scelti tra gli altri: la Striscia di Gaza, il Nepal, la Cecenia, il Venezuela, lo Zimbabwe, l’Artico e l’Amazzonia. Quest’anno il tema era l’Afghanistan e la condizione delle donne e delle ragazze dopo il ritorno dei taliban al potere nell’agosto del 2021. In un paese dove la situazione si fa sempre più grave, i diritti delle donne sono stati progressivamente soppressi: non possono più andare a scuola né all’università, lavorare, vestirsi liberamente, frequentare i parchi pubblici o semplicemente andare dal parrucchiere o in un centro estetico. Alla fine dell’agosto 2024 il regime ha ulteriormente rafforzato il suo controllo promulgando una nuova legge che obbliga le donne a coprirsi integralmente il volto e vietando di far sentire la loro voce, cantare o leggere ad alta voce in pubblico. Le donne sono diventate invisibili e sono eliminate dalla vita pubblica.

Kabul, 2 marzo 2024. Un gruppo di ragazze nella casa di una loro amica che festeggia il compleanno. I taliban hanno proibito alle donne di ascoltare musica e ballare, ma in privato, protette dalle mura domestiche, continuano a farlo.

Il premio ha permesso al progetto di essere svolto in condizioni migliori rispetto a quelle che avrebbero potuto offrire i giornali. Prima di tutto per la sua durata, sei mesi, e poi per la possibilità di affidarlo a due donne, che l’hanno presentato insieme e hanno realizzato un’inchiesta approfondita. Entrambe conoscono molto bene l’Afghanistan. La fotografa Kiana Hayeri, nata in Iran nel 1988 e partita per il Canada da adolescente, si è trasferita a Kabul nel 2014, subito prima della partenza delle forze della Nato, ed è rimasta lì per otto anni. È stata arrestata e imprigionata nel 2019, per poi essere liberata su cauzione. Hayeri, che ha pubblicato su riviste come il New York Times Magazine e il National Geographic, e ha vinto diversi premi – era accompagnata dalla francese Mélissa Cornet, una ricercatrice specializzata nel diritto delle donne, che vive e lavora in Afghanistan dal gennaio 2018.

Ragazze giocano nella neve dietro un condominio, lontano dalla strada principale nella parte ovest di Kabul, febbraio 2024. Con il ritorno al potere dei taliban il diritto delle donne di muoversi senza un maschio ad accompagnarle o di andare nei parchi è stato limitato.

Insieme hanno attraversato il ­paese, dalla capitale Kabul alle zone rurali, visitato sette province, incontrato più di cento donne raccogliendo le loro testimonianze in condizioni molto diverse, e ogni immagine è accompagnata da didascalie precise e ricche di informazioni. Con un formato quadrato, che trasmette un senso di equilibrio, e usando sempre la luce naturale, Hayeri ha mostrato scene di vita quotidiana facendo sempre attenzione a non compromettere le persone ritratte. Così possiamo vedere delle ragazze che ballano e festeggiano un compleanno al riparo degli sguardi degli uomini, o una donna che posa davanti a striscioni colorati che i figli hanno riportato a casa dopo essersi diplomati nelle madrase (scuole coraniche) pachistane, e che si dice contenta della situazione attuale: “Dopo il conflitto la vita è di nuovo tranquilla. In passato eravamo sempre in ansia, ma adesso siamo serene, la notte dormo bene. Dobbiamo smettere di batterci. Oggi siamo finalmente contente”.

Kabul, febbraio 2024. Nella redazione di un giornale dedicato alle donne.

Su iniziativa di Mélissa Cornet, che studia la vita quotidiana dell’Afghanistan dal 2021, il lavoro è stato completato da creazioni realizzate dalle ragazze afgane che hanno incontrato; un lavoro che ha dato a queste donne una rara possibilità di esprimersi. È quindi un’inchiesta molto completa, mai caricaturale, che s’impone con toni controllati, senza alcuna drammatizzazione visiva, e che esplora la realtà in profondità.

Un disegno di Mélissa Cornet. Studenti della scuola femminile di Badakhshan.
A destra, collage dipinti da alcune ragazze. (Mélissa Cornet per fondazione Carmignac)

A volte un’immagine metaforica può dire e commuovere più di una fotografia documentaria o descrittiva. È il caso, per esempio, di quella scattata l’11 maggio 2024 che raffigura un manifesto strappato su un muro di Faizabad, capoluogo del Badakhshan. Il manifesto ordinava alle donne di coprirsi il volto con un burqa, che lo nasconde completamente, o con un niqab, che lascia gli occhi scoperti. Quel manifesto strappato è una risposta alla violenza inflitta alle donne. ◆ adr

Maryam, 18 anni, vuole diventare un’atleta di parkour (Dream Girls’ © Mélissa Cornet, Kiana Hayeri e l’insegnante d’arte Fatimah per Fondazione Carmignac)
Fatima, 23 anni, vuole fare la pittrice.
Saira, 50 anni, nella sua casa nella provincia di Wardak, febbraio 2024. La donna posa davanti agli striscioni che i suoi figli hanno ricevuto quando si sono diplomati in una madrasa in Pakistan. La provincia afgana in cui vive è molto coinvolta nel conflitto. “Le persone potevano pensare che i miei figli fossero taliban, così un tempo usavamo questi striscioni come cuscini e ci dormivamo sopra. In passato eravamo sempre in ansia, ora siamo tranquilli. Basta lottare”.
Faizabad, Badakhshan, maggio 2024. Un manifesto indica alle donne come coprire il volto: con un burqa, che lo nasconde interamente, o con un niqab, con cui solo gli occhi rimangono scoperti.
Il premio e le mostre

◆Dedicato quest’anno alla condizione delle donne e delle ragazze in Afghanistan dopo il ritorno dei taliban, il premio della fondazione Carmignac è stato assegnato al progetto della fotografa Kiana Hayeri e della ricercatrice Mélissa Cornet. Il loro lavoro è esposto nella mostra No woman’s land a Parigi, in Francia, fino al 18 novembre 2024 al Réfectoire des cordeliers nell’ambito del festival PhotoSaintGermain. E all’aperto, lungo la Senna, al Port de Solférino dal 31 ottobre al 18 dicembre 2024.


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Questo articolo è uscito sul numero 1587 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati