Il 29 ottobre la candidata democratica Kamala Harris ha partecipato a un comizio a Washington e ha detto che il suo avversario, il repubblicano Donald Trump, è una minaccia per la democrazia. Trump, da parte sua, ha rivelato di voler essere un “dittatore per un giorno”, ha definito “nemici interni” i suoi rivali politici e ha promesso di usare l’esercito contro gli avversari, se vincerà le elezioni. A questo si aggiunge una narrazione autoritaria, maschilista, xenofoba e razzista ormai onnipresente. Il 27 ottobre in un comizio a New York uno degli oratori ha descritto Puerto Rico come “un’isola di spazzatura galleggiante” e ha attaccato gli ispanici, i neri, gli ebrei e i palestinesi. Altri relatori, compreso Trump, hanno bersagliato Harris di messaggi offensivi e misogini. Questa pericolosa retorica non gli ha impedito di crescere nei sondaggi. Ci sono segnali di una grande mobilitazione degli elettori registrati come repubblicani nel voto anticipato, come a indicare un’inversione di tendenza: nel 2020 Trump aveva invitato i suoi sostenitori a non votare per posta o anticipatamente, oggi li incoraggia a farlo.

Harris è in difficoltà. D’altronde è stata la vicepresidente di Joe Biden nel periodo in cui l’inflazione ha colpito duramente la popolazione. La rabbia dei cittadini per l’aumento dei prezzi, l’instabilità geopolitica e le incertezze sul futuro spiegano una tendenza globale: di solito i partiti al potere perdono le elezioni

Le probabilità di vittoria di Trump sono in aumento, ma il risultato è appeso a un filo: tutto si deciderà nei sette stati ancora in bilico. A Harris, in linea di principio, basterebbe vincere in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania per essere eletta. In Pennsylvania vivono circa cinquecentomila portoricani e insultarli non sembra una grande idea. ◆ as