Quasi duecento anni fa Mary Shelley capì che l’identità è nei ricordi. E se un essere è esistito continuerà a farlo attraverso il ricordo. Lo capì nel 1822, all’età di 25 anni, appena rimasta vedova del poeta Percy Bysshe Shelley del quale decise di conservare il cuore come reliquia. Il suo romanzo Frankenstein era uscito quattro anni prima ed era già alla terza edizione. L’immagine del cuore del poeta in un cimitero inglese sepolto accanto a sua moglie mentre il resto del suo corpo è al cimitero acattolico di Roma è la scintilla che ha fatto nascere La donna che scrisse Frankenstein, libro eccentrico e disturbante della scrittrice argentina Esther Cross, nata a Buenos Aires nel 1961. L’autrice narra diversi momenti della vita di Mary Shelley che scrisse un romanzo su un mostro costruito con pezzi di cadaveri nell’era dei “resurrezionisti”, dei furti e delle rivendite di cadaveri, delle operazioni senza anestesia e dei circhi che esibivano esseri umani deformi per il sollazzo del pubblico. Percy e Mary Shelley amavano viaggiare, erano sempre in moto, lo facevano perché erano “romantici”, scrive Esther Cross: traslocavano con mobili, carte, corrispondenza e una culla. Se si lasciavano alle spalle una tomba si portavano sempre dietro una culla: la gente intorno a loro moriva, anche i figli, ma loro continuavano a viaggiare riaffermando la loro vita. Anche il dottor Frankenstein e la sua creatura sono romantici per la stessa ragione: sono costantemente in movimento.
Clarín
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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati