In Martire!, il primo romanzo del poeta iraniano-statunitense Kaveh Akbar, un giovane uomo tormentato cerca una ragione per vivere. Cyrus, il figlio di un operaio emigrato dall’Iran nello stato dell’Indiana, ha perso la madre in un terribile incidente aereo avvenuto nel 1988 quando un missile statunitense per errore colpì un aereo di linea iraniano. Il trauma gli lascia una ferita profonda: a meno di trent’anni sta già cercando di uscire dall’alcolismo e combatte con una fragile salute mentale. Cyrus è anche un aspirante scrittore ed è ossessionato dal concetto di martirio: “Non è una cosa islamica”, spiega: “Penso ai martiri laici, ai pacifisti. Gente che ha dato la vita per una causa più grande di loro”. Per questo va a New York a intervistare un’ artista iraniana, anziana e malata, Orkideh, che mette in mostra se stessa, un po’ come Marina Abramović, al Brooklyn museum. Tra loro nasce una tenera amicizia e Cyrus comincia lentamente a prendere coscienza dei suoi problemi. La prosa è ricca, piena di elaborate similitudini. Tutta questa angoscia esistenziale sembra uscita da un disco di musica emo per adolescenti e suona un po’ forzata in un protagonista quasi trentenne. Le intenzioni dell’autore sono sincere ma non siamo molto lontani dal trauma porn, una narrazione troppo dettagliata e forse autocompiaciuta del disagio.
Houman Barekat, The Guardian
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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati