“How can God take a town away that’s called Paradise?” (Come può dio portarsi via una città chiamata Paradiso?). È quello che chiedono al fotografo francese Maxime Riché alcuni abitanti della città di più di 26mila abitanti distrutta dal Camp fire, il megafire più devastante della storia della California, cominciato l’8 novembre 2018. In meno di quattro ore, in seguito a un cortocircuito su un pilone elettrico, il fuoco si è propagato in una vegetazione fitta e secca a causa del forte vento, bruciando più di 40mila ettari di terreno.

Con 18mila edifici distrutti, 86 morti e dieci miliardi di dollari di danni, il Camp fire ha lasciato un’intera popolazione nella desolazione e nella precarietà. Nessuno è stato risparmiato e ancora oggi molti ne subiscono le conseguenze. Nel 2020, durante un temporale, un fulmine ha provocato un nuovo incendio, il North complex, a pochi chilometri da Paradise. Nel corso di quell’anno la California ha registrato diecimila incendi tra cui uno che ha distrutto più di 400mila ettari ed è stato definito un gigafire.

L’anno successivo, il 13 luglio, l’incendio Dixie ha bruciato le colline vicino a Paradise, ma spinto dal vento non ha raggiunto la città. Tuttavia questo megafire ha distrutto 400mila ettari di terreno e dopo essersi sviluppato in modo incontrollato per più di cento giorni ha lasciato in cenere un’area grande il triplo di San Francisco.

Un anno dopo il primo incendio, Maxime Riché, nato nel 1982, si è recato a Paradise. Riché è un ingegnere ed è molto sensibile ai problemi ambientali e all’analisi delle cause profonde del moltiplicarsi delle catastrofi naturali. Nel 2010 ha creato Climate heroes, un’organizzazione non governativa impegnata nella sensibilizzazione alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Con la sua ong ha realizzato, per esempio, un progetto di narrazione multimediale attraverso le immagini di fotografi di diversi paesi terminato con la pubblicazione di un libro.

Sopra: ricostruzione di una casa a Paradise, tra il fumo dell’incendio di Dixie, agosto 2021

Nel 2019 Riché ha deciso di andare a vedere quello che stava succedendo a Paradise: “Sapevo che non avrei voluto fare un classico reportage, ma piuttosto un’analisi della situazione. Volevo mostrare l’angoscia che stava vivendo la città, che aveva colpito direttamente i suoi abitanti, e far vedere come avevano reagito a questa catastrofe. Cercare soprattutto di far capire la scelta fatta da chi è rimasto e da chi ha deciso di ricostruire su questo territorio distrutto”.

Jessica e Billie in una chiesa dove le persone rimaste senza casa e lavoro ricevono beni di prima necessità, febbraio 2020

Riché ha realizzato delle fotografie ma ha anche raccolto le testimonianze scritte dagli abitanti, a volte con una calligrafia infantile, su fogli a righe o colorati. Le testimonianze scandiscono la storia raccontata nel libro, intitolato Paradise, insieme alle foto e alle didascalie di ogni immagine inserite nelle ultime pagine. Nel libro la storia, la disperazione, il trauma e lo smarrimento di molti abitanti emergono anche attraverso questi testi. Tutto ciò ha portato il fotografo a una riflessione sulla fotografia: “Anche se uno dei suoi poteri è rivelare quello che non si vede, la fotografia è comunque limitata nella sua capacità di mostrare quello che non è (o non è più) direttamente visibile. La fotografia non riesce a trasmettere l’odore del fumo, il calore o altre sensazioni che hanno segnato per sempre le vittime di questi incendi”.

Paradise, febbraio 2020

Visioni roventi

È sulla base di queste considerazioni, consapevole dei limiti della fotografia e dell’impossibilità di superarli, che Riché ha realizzato delle resinotipie, una serie di stampe particolari, a base di cenere, raccolta a Paradise. Queste fotografie documentarie alternano grandi spazi dove si vedono gli operatori forestali al lavoro con primi piani di mani e oggetti, come una bandiera statunitense, e poi ritratti, immagini di prefabbricati, case appena ricostruite e ridipinte di fresco.

La maggior parte dei segni degli incendi non è più visibile, se non in una stazione di servizio distrutta dove sono abbandonate due carcasse di auto carbonizzate. Non c’è alcuna volontà di drammatizzare, infatti i colori sono tenui, quasi pastello, come avvolti in una leggera foschia, una sorta di fumo sottile. Poi, in totale contrasto, ci sono altre fotografie dalle tinte forti, dai rossi vibranti, realizzati con una pellicola sensibile agli infrarossi che trasforma il verde in cremisi.

Pearson road, Paradise, luglio 2021. Tre ragazzi vanno a pesca tra il fumo dell’incendio Dixie

“Per ritrascrivere le emozioni dei sopravvissuti e le immagini che li ossessionano, ho scattato in pellicola e a volte ne ho usata una particolare per diapositive a infrarossi. Le sue tonalità roventi sono come una sorta di flash-back dell’inferno che hanno vissuto e ricordano le fiamme rimaste nella loro memoria. Come allucinazioni, queste foto evidenziano la fragile normalità di una vita che cercano di ricostruire. La pellicola sensibile alla luce nel vicino infrarosso, al di là quindi dello spettro visibile, rivela di più delle superfici e degli oggetti fotografati rispetto a quello che possiamo percepire. Agisce come un fuoco rivelatore, che mette a nudo gli elementi del paesaggio, ponendoci di fronte ai limiti dei nostri desideri e della nostra potenza, rimettendo in discussione la nostra capacità di controllare gli spazi in cui viviamo. Queste fotografie dai colori sovrannaturali mi permettono di fare avanti e indietro tra ciò che è visibile e ciò che non lo è, e quello che hanno vissuto le vittime del fuoco. Il rosso, al tempo stesso colore simbolo del pericolo e dell’inferno, è un invito a ritrovare una verità antica, una paura istintiva, ancestrale, legata al fuoco e nascosta in ognuno di noi. Attraverso un’incursione nel campo della finzione, l’immaginario evocato da questo colore beneficerà forse di un’ulteriore energia, come ha osservato l’antropologo francese Bruno Latour”.

Il cartello che indica l’ingresso alla città di Paradise e alle sue spalle il segnale che informa sulla sua ricostruzione

Questa alternanza di sequenze dalle tinte pallide e di foto a infrarossi mette in risalto una visione al tempo stesso concreta e quasi irreale, e ci trasporta in un mondo inafferrabile e terribile. Con i suoi limiti, la fotografia ci obbliga a interrogarci sulla realtà, sulla sua fragilità e sulla sua limitatezza.

Potremmo inserire l’opera di Maxime Riché nella categoria della “nuova fotografia documentaria”, ma è lui stesso a spiegare il suo approccio: “Definisco il mio lavoro come ‘documentario speculativo’, perché mentre lo faccio mi piace pormi delle domande: cosa succederà dopo? Cosa si può cambiare e cosa non cambierà? Quale sarà la nostra capacità di adattamento davanti a cambiamenti di questo tipo? Così ho scelto di non mostrare solo un presente dal valore storico o sociologico, con la neutralità spesso richiesta dalla fotografia documentaria, ma di proporre una riflessione orientata verso un possibile, una temporalità futura, per suggerire le scelte che ci si presentano e che dovremo necessariamente fare”. ◆ adr

Il libro e la mostra

◆ Il libro Paradise di Maxime Riché è pubblicato dalla casa editrice André Frère con dei testi di Michel Poivert e dello stesso fotografo. Vincitore del premio di fotografia ambientale Dahinden - Une autre empreinte, la serie Paradise è stata esposta da poco a Parigi all’Accademia del clima ed è attualmente in mostra alla fiera d’arte internazionale Paris Photo.


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Questo articolo è uscito sul numero 1588 di Internazionale, a pagina 66. Compra questo numero | Abbonati