In Termush, un romanzo breve scritto nel 1967 dall’autore danese Sven Holm, il peggio è successo. La guerra atomica ha devastato il mondo e si dà per scontato che chi non è già morto lo sarà presto. Una minuscola parte dell’umanità fatta di ricchi paranoici e disperati vive ancora in una sorta di hotel di lusso chiamato Termush. Hanno pagato per anni una quota in vista dell’apocalisse e ora vivono in bunker corazzati pieni di cibo e medicine. Il narratore, di cui non si conosce il nome, dice che è potuto entrare a Termush “grazie al suo capitale privato” e insieme ad altri pochi fortunati ha aspettato la fine della guerra nei bunker dell’hotel: “Nessuno di noi si aspettava che tutto sarebbe andato in modo così indolore. Sia letteralmente sia metaforicamente”. Dopo sei giorni chiusi nei bunker gli ospiti cominciano a riflettere e a osservare, interrotti da occasionali allarmi per le radiazioni che li rispediscono sotto terra. Ci sono pochi nomi propri a Termush: il narratore per esempio si accompagna a una certa Monica e sulle pareti ci sono quadri di Klee e di Monet. Quando qualcuno crolla emotivamente gli danno dei sedativi e il personale dell’hotel cerca di mantenere un’aria di normalità. Con il tempo si formano delle fazioni, non sempre organizzate attorno a nobili princìpi e poi, affamati e contaminati, cominciano a bussare alle porte di Termush altri sopravvissuti armati e ben organizzati. Termush ha quasi sessant’anni ma oggi riesce a essere più disturbante che mai.
Matthew Keeley, The Washington Post
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Questo articolo è uscito sul numero 1599 di Internazionale, a pagina 80. Compra questo numero | Abbonati