Gli architetti piacciono a Holly-wood, specie per protagonisti romantici, mix ordinato di solidità maschile e sensibilità artistica: sognano, creano e sono eleganti anche nei cantieri. Il tentacolare e robusto The brutalist è il secondo film del 2024 (e, non ce ne vorrà Francis Ford Coppola, il migliore) a sfidare quell’archetipo con una metafora imponente per un’America in declino sociale, culturale ed estetico, con l’architetto come visionario tormentato che progetta un futuro da pochi altri immaginato. Come capolavoro compiaciuto e paurosamente ambizioso, sarebbe facile paragonarlo al buco nero modernista che consuma il suo protagonista, il triste emigrato ebreo ungherese Lászlo Tóth, che tenta disperatamente di lasciare il segno nel panorama conservatore statunitense del dopoguerra. Ma al terzo film, dopo il grandioso The childhood of a leader e lo scabroso Vox lux, Brady Corbet si rivela più classicista che brutalista e il suo film è raccontato con la linearità e la potenza delle epopee umane anni cinquanta di George Stevens e Otto Preminger. Sopravvissuto all’Olocausto e separato dalla famiglia, Tóth (Brody in modalità Oscar) arriva negli Stati Uniti senza soldi e prospettive, finché il ricco industriale Van Buren (Pearce) diventa per lui un improbabile e inaffidabile benefattore. Tóth declina tristemente l’artista che non riesce a far prevalere i suoi princìpi. Van Buren, la cui grinta nasconde un’insicurezza nervosa e queer, è il suo opposto per temperamento e filosofia. Il potente film di Corbet identifica una tragedia struggente in entrambe le scuole di mascolinità e nella relazione simbiotica e distruttiva tra un visionario in cerca di un mecenate e un ricco capitalista in cerca di un riconoscimento più alto.
Guy Lodge, Sight and Sound
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Questo articolo è uscito sul numero 1600 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati