La 15a biennale di arte contemporanea africana di Dakar, che si è svolta dal 7 novembre al 7 dicembre con il titolo The wake, è stata caratterizzata dai concetti di risveglio e di traccia. Quarantacinque anni dopo la sua creazione, la rassegna ha riunito 54 artisti e artiste, provenienti dal continente, dalla diaspora e dalla regione afrocaraibica, all’interno dell’ex palazzo di giustizia della capitale, dove le responsabili e le curatrici hanno modificato gli spazi per ridare vita a una parte di questo edificio brutalista rimasto abbandonato per decenni.
Così nella sala dei passi perduti si è potuta ammirare una flora fantastica, simbolo dell’appello poetico lanciato da questa Dak’art perché si prenda coscienza dell’ecocidio in atto e dei disastri della colonizzazione. Le opere di cinque artiste forti e dinamiche sintetizzano benissimo questo spirito.
Aggirare i divieti
In uno dei cortili a lungo inaccessibili dell’ex palazzo di giustizia dove si svolge gran parte delle attività della biennale, Anta Germane Gaye, la decana della pittura moderna senegalese ha collocato il suo salotto, il suo cabinet of curiosities e il suo gineceo, luoghi che raccolgono memorie e fotografano la “buona società di Saint-Louis”, quando Saint-Louis era il faro e la capitale dell’Africa occidentale francese. Con la sua tunica ricamata, le sue collane baulé e il copricapo “per pregare senza doversi rimettere a posto”, la pittrice si è imposta nel tempo come la grande figura del suweer, la pittura sopra e sotto vetro. Una forma di resistenza artistica alla colonizzazione francese. “Nel 1911 il governatore generale William Merlaud-Ponty aveva vietato la cromolitografia proveniente dal Marocco che rappresentava delle figure di santi, perché secondo lui queste figure avevano un’influenza eccessiva sulla popolazione ‘primitiva’”, precisa l’artista. “I pittori hanno aggirato il divieto con il vetro e l’inchiostro di china”.
Anche l’ingresso di Cotton blues è molto curato. Attirati da un insieme di palle e di fili di cotone intrecciati come una ragnatela (che ricorda gli impenetrabili tessuti della giapponese Chiharu Shiota, ma anche le sinapsi del cervello) si entra nella coinvolgente installazione di Laeila Iyabo Adjovi, dove la “fragilità della memoria è direttamente collegata alla trasmissione delle conoscenze tradizionali”.
Nella sua esplorazione sul cotone, nel 2023 Adjovi è andata dai coltivatori dell’Atakora, nel nord del Benin. L’ex giornalista e vincitrice del gran premio della biennale 2018 ne è tornata con delle fotografie stampate con la tecnica della cianotipia, inventata 180 anni fa, dove il blu di Prussia serve per mettere in evidenza la malinconia dei vecchi schiavi dei campi di cotone americani così come quella dei coltivatori di cotone del Benin, che oggi devono fare i conti con la ferocia della globalizzazione. Nelle sue stampe su carta, su cotone o su carta da parati, come in Brisso dans les nuages, la frontiera tra sogno e documento è labile, se non immaginaria. “Non è certo una novità, i figli del Sahel sono affascinati dalla neve”, sorride Laeila Iyabo Adjovi.
Anche Moufouli Bello, come Laeila Iyabo Adjovi, è originaria del Benin e ha partecipato alla mostra On s’arrêtera quand la terre rugira, un grido collettivo sul saccheggio delle risorse africane e afrocaraibiche e la distruzione degli ecosistemi. Con umorismo la videoartista ha invitato al dialogo (spesso tra sordi) studenti e dipendenti della scuola di arte contemporanea del Fresnoy, a Tourcoing nel nord della Francia, e i lavoratori che riciclano rifiuti elettronici ad Agbogbloshie, discarica illegale di Accra, in Ghana.
Tourcoing e Accra, località al tempo stesso lontane e vicine. Uno dei dipendenti del Fresnoy osserva che nel nord della Francia, in passato molto industrializzato, i metalli pesanti continuano ad avvelenare i corpi. E nella Babilonia di Agbogbloshie la loro concentrazione è di cinquanta volte superiore alla norma. Ma il parallelismo si ferma qui.
Perché davanti ai nostri occhi, nelle videochiamate proiettate su due schermi affiancati e appesi su un muro vuoto, il tenue filo della loro conversazione sul riciclaggio dei nostri computer, frigoriferi, telefoni, si dipana a fatica senza mai interrompersi nonostante i silenzi imbarazzanti e le domande scomode dei forzati di Accra. In questo documento politico, di formidabile e divertente semplicità, ci si vede, ci si parla, ma non ci si capisce.
Sopravvivere ai tabù
Au fil de soi(e) è tutt’altro che una “camera delle meraviglie”, semmai è stata per tanto tempo la camera degli orrori per Agnès Brézéphin, vittima di incesto. Dal trauma alla liberazione, la sua è un’opera di riparazione sotto forma di autoritratto. “Regna infine la serenità”, testimonia l’artista che vive in Martinica. Concepita mentre era in ospedale, l’installazione e il suo “alfabeto” fatto di dischi di metallo, di conchiglie, di bozzoli, sono stati immaginati per anni e creati in tre giorni e tre notti.
Con la sua installazione Brézéphin ha vinto il gran premio della biennale, che le è stato consegnato direttamente dal presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye. Un evento politico, dato che in Senegal l’incesto rimane un argomento tabù. “Non riesco a credere di essere stata finalmente compresa”, dice l’artista dall’isola di Gorée dove, insieme a Odette Starr, sta realizzando un’opera che racconta la traversata atlantica degli schiavi.
A palace in pieces di Wangechi Mutu è l’opera più monumentale e corrosiva di questa biennale di Dakar. Mutu ha preso possesso dei locali dell’ex corte suprema, tempio della giustizia senegalese dal 1958 al 1992, dove ha realizzato una dea afro-futurista. L’artista kenyana, che lavora a New York, ha creato un’opera di “giustizia artistica”, dice Salimata Diop, la direttrice artistica della biennale.
Da ogni lato troneggiano le mani di bambini in silicone nero, simboli delle angherie coloniali, circondate da strumenti per trasfusioni di bile nera. A terra si cammina su un poema scritto con la sabbia, come se si calpestasse la giustizia. Di fronte a questa cupezza l’artista sembra chiedersi chi sta giudicando. Sono i fantasmi dei coloni francesi fondatori di questo palazzo sulla punta meridionale di Dakar? O è la mano di Léopold Sédar Senghor, il poeta presidente, che proprio tra queste mura fece processare e condannare a morte (l’ultima condanna a morte nel paese) Moustapha Lô?
E il pubblico resta conquistato dal poema anticolonialista Preghiera di pace di Senghor, scritto in un campo di prigionia tedesco nell’est della Francia: “Posso odiare il Male perché provo un grande attaccamento per la Francia. […] Sì, Signore, perdona la Francia che odia gli occupanti e che mi impone così duramente l’occupazione”. ◆ adr
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1592 di Internazionale, a pagina 87. Compra questo numero | Abbonati