Abdel-Nasr Mahmud si stava sistemando per la notte. “Verso le dieci abbiamo sentito delle esplosioni fortissime”, racconta. Il rumore ha “scosso” il magazzino in cui la famiglia aveva trovato riparo. “Improvvisamente il cielo è diventato arancione”, aggiunge. Anche se aveva capito che era successo qualcosa di brutto, Abdel-Nasr non si aspettava che sarebbe stato così terribile. Almeno 45 palestinesi sono stati uccisi in un attacco israeliano sull’area di Tel al Sultan a Rafah, la città più a sud della Striscia, il 26 maggio. La metà delle vittime sono donne e bambini. Israele ha cercato di presentare quello che è stato chiaramente un attacco a civili sfollati come un’operazione contro “obiettivi legittimi” di Hamas. Secondo Abdel-Nasr, i soccorritori hanno avuto difficoltà a raggiungere le vittime e a domare l’incendio causato dall’attacco. “La sabbia è diventata rossa per quanti feriti c’erano”, racconta. “È stata una scena di puro orrore”.

Shaymaa Abu Khdair viene dal nord della Striscia. Da quando è cominciata la guerra è stata costretta a spostarsi molte volte. I suoi figli di due e quattro anni non smettono di piangere dopo aver assistito al massacro a Rafah. Appena ha sentito le esplosioni, suo marito Muhammad Ziad è corso a dare una mano ai feriti. “C’era una nebbia di polvere da sparo e fumo dappertutto”, ricorda. “Ho cercato di liberare dal fuoco quante più persone potevo e di caricarle nelle ambulanze e nelle auto”. Ci sono volute ore prima che le fiamme fossero domate. “Ogni giorno sopravviviamo a un attacco israeliano”, dice Ziad. “Viviamo nella paura costante. Preghiamo che questi attacchi finiscano”. ◆ fdl

Abubaker Abed è un giornalista e traduttore del campo profughi di Deir al Balah, nel centro della Striscia di Gaza.

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Questo articolo è uscito sul numero 1565 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati