Negli ultimi anni sono state raccontate varie storie sulla crisi della competenza. Ci hanno detto che l’era della tecnocrazia liberale era finita, uccisa dalla crisi finanziaria e dal populismo. Ma per quanto trovino difficile convivere con la competenza, sembra anche che le democrazie non riescano a farne a meno. All’inizio del 2021 due delle democrazie capitaliste più litigiose del mondo, l’Italia e gli Stati Uniti, si sono rivolte a due noti esperti per provare a tirarsi fuori da una situazione politica senza precedenti. È difficile trovare qualcuno che incarni la figura del tecnico più di Janet Yellen, la segretaria del tesoro degli Stati Uniti, e Mario Draghi, il presidente del consiglio italiano.
Negli ultimi trent’anni Yellen e Draghi hanno avuto incarichi di grande responsabilità, a volte anche contemporaneamente, come tra il 2014 e il 2018, quando hanno guidato rispettivamente la Federal reserve (Fed, la banca centrale degli Stati Uniti) e la Banca centrale europea (Bce), le due banche centrali più potenti del mondo. All’epoca erano stati scelti non solo per la loro competenza, ma anche perché erano entrambi allineati su posizioni centriste: Yellen più a sinistra, Draghi più verso il centrodestra. Oggi, a un’età in cui potrebbero godersi la pensione, sono stati richiamati in servizio per un ruolo più che mai politico.

Yellen, la prima donna a guidare il dipartimento del tesoro degli Stati Uniti, gestirà il più ambizioso piano di stimolo mai lanciato da una democrazia in tempo di pace. Draghi deve cercare di riportare l’Italia sul sentiero della crescita con l’aiuto dei 209 miliardi di euro stanziati dal fondo Next generation Eu (NextGenEu) dell’Unione europea.
Sono due compiti difficili, imposti dalla situazione estrema in cui si trovano gli Stati Uniti e l’Europa. Su entrambe le sponde dell’Atlantico le aspettative deluse e la paura del futuro stanno favorendo movimenti nazionalisti destabilizzanti e di estrema destra. Se non ripartirà una crescita generalizzata, si potrebbero aprire scenari preoccupanti.
Ovviamente sarebbe assurdo prendersela personalmente con Draghi o con Yellen per i cambiamenti e gli shock che, a partire dagli anni novanta, hanno destabilizzato le democrazie capitaliste, o per la crisi di fiducia che ha investito il centrismo liberale. Ma essendo figure molto influenti, simbolo di una classe di esperti che ha fatto il bello e il cattivo tempo per trent’anni, non possono neanche dichiararsi del tutto innocenti. È stato sotto i loro occhi che la crescita ha frenato, la disuguaglianza tra classi sociali e tra regioni è aumentata e si è passati dal rischio d’inflazione a quello di deflazione. Sotto i loro occhi il sistema finanziario ha potuto diventare un volano di distruzione di massa. E c’erano sempre loro quando i rischi legati ai cambiamenti climatici e alle pandemie sono stati sottovalutati.
Mentre i rivoluzionari del libero mercato degli anni settanta e ottanta erano figure radicali determinate ad abbattere gli ultimi bastioni della vecchia sinistra e a schiacciare il lavoro organizzato, Draghi e Yellen si distinguevano negli anni novanta come amministratori di quella che oggi è nota come “grande moderazione” (un’epoca di calma apparente, caratterizzata da deboli recessioni e da una bassa e stabile inflazione). Questo non fa di loro dei sostenitori dello status quo. Come ha osservato una volta Yellen, “le economie capitaliste raggiungeranno la piena occupazione senza interventi? Certamente no. Le autorità politiche e finanziarie hanno le conoscenze e le capacità per migliorare i risultati macroeconomici anziché peggiorarli? Sì”. La loro idea d’intervento, tuttavia, ha sempre dato per scontato l’orizzonte istituzionale esistente. Eredi della rivoluzione di mercato, impegnati a gestire e a migliorare la situazione di fatto, Draghi e Yellen hanno dato la scalata alle istituzioni finanziarie. La loro carriera, tuttavia, è stata segnata dalla necessità di adattarsi a scossoni politici ed economici imprevisti e fuori del loro controllo, che hanno spinto entrambi a esplorare i limiti della tecnocrazia.
Draghi è stato il primo ad affrontare questa sfida. E grazie al potere esercitato come presidente della Bce è riuscito a cambiare il corso della storia con una frase. La sua dichiarazione dell’estate 2012, quando disse che la Bce avrebbe fatto whatever it takes, qualunque cosa, per salvare l’eurozona, è un esempio da manuale di quello che i filosofi del linguaggio chiamano “enunciato performativo”: attraverso la sua dichiarazione Draghi ha creato il prestatore di ultima istanza che fino a quel momento era mancato all’eurozona.
Molti esperti statunitensi provenienti dall’ambiente di Yellen avevano sempre guardato con profondo scetticismo al progetto di unificazione monetaria europea. Lo confrontavano con una certa condiscendenza con l’esperienza statunitense, osservando che l’Europa aspettava ancora il suo “momento hamiltoniano” (da Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti che nel 1790 riuscì a trasformare il debito delle colonie in debito pubblico del nuovo stato federale, gettando le basi per la nascita dei moderni Stati Uniti). Dopo il 2008, però, la situazione cambiò. Yellen e i suoi colleghi negli Stati Uniti hanno dovuto prendere atto dei problemi strutturali del paese: le distorsioni del sistema finanziario, le profonde disuguaglianze sociali, l’inadeguatezza del welfare, la polarizzazione della politica. Le tensioni che l’amministrazione Biden deve gestire oggi sono così forti che whatever it takes potrebbe diventare anche il suo motto.
Yellen e Draghi sono sicuramente qualificati per il ruolo che ricoprono, ma la domanda è: sono in grado di controllare le forze politiche ed economiche dei loro paesi? I loro incarichi attuali non sono un premio alla carriera: sono una scommessa sulla loro capacità di tirarci fuori dalla situazione terribile in cui il 2020 ci ha fatto precipitare. In quello che sarà probabilmente il loro atto finale, Yellen e Draghi riusciranno a riscattare l’ultimo mezzo secolo di tecnocrazia centrista? E per fare questo, rinnegheranno le convinzioni su cui quella tecnocrazia si basava?
Yellen e Draghi incarnano due tipiche storie di successo del dopoguerra
Formazione keynesiana
Yellen e Draghi incarnano due tipiche storie di successo del dopoguerra. Sono quasi coetanei: Yellen è nata nell’agosto del 1946 a Brooklyn, Draghi nel settembre del 1947 a Roma. Tutti e due hanno ottenuto il dottorato di ricerca in una prestigiosa facoltà di economia nella costa est degli Stati Uniti: Yellen all’università di Yale nel 1971, Draghi al Massachusetts institute of technology (Mit) nel 1976. Entrambi hanno una formazione keynesiana. Le loro carriere e quelle dei loro collaboratori smentiscono il cliché secondo cui la politica economica degli ultimi cinquant’anni sarebbe stata dominata da scuole di pensiero favorevoli al libero mercato come il monetarismo della scuola di Chicago. Negli anni settanta, all’Mit e a Yale, Draghi e Yellen assorbirono i princìpi della cosiddetta sintesi neoclassica, per cui i mercati possono funzionare solo se sussistono le corrette condizioni macroeconomiche. In questa prospettiva keynesismo ed economia di mercato non sono contrapposti, ma complementari.
Negli anni ottanta Yellen ha avuto un ruolo importante nell’ulteriore evoluzione della sintesi neoclassica, nota come economia neokeynesiana. Lavorando insieme a economisti del calibro di Joseph Stiglitz e George Akerlof, Yellen ha studiato gli effetti macroeconomici negativi delle imperfezioni del mercato del lavoro. Queste, come le rigidità di prezzi e salari, tuttavia, permettevano alle politiche macroeconomiche di funzionare. Era proprio perché i mercati erano lenti ad adeguarsi che le variazioni inaspettate dei tassi d’interesse, delle tasse e della spesa pubblica potevano avere effetti reali sull’economia. All’orizzonte non c’erano grandi crisi come quelle degli anni trenta, quello era un problema dei paesi in via di sviluppo. Negli Stati Uniti, garantiti da un quadro di politica economica solido e ben definito, il problema era solo di messa a punto.
Il lavoro di Draghi all’Mit è stato meno fecondo intellettualmente, ma la sua tesi di dottorato è comunque rivelatrice: in un capitolo Draghi spiega che nel gestire un’economia soggetta a fluttuazioni a breve termine si hanno risultati migliori concentrandosi su obiettivi a lungo termine. Una strategia a lungo termine, a prescindere dai costi nel breve periodo, funzionerà meglio rispetto al tentativo frenetico d’introdurre correttivi in ogni momento.
Anche se entrambi devono poco alla scuola di Chicago, Draghi e Yellen sono stati grandi sostenitori dei mercati e dell’idea che la concorrenza e il corretto studio degli incentivi siano la ricetta per la produttività e la crescita. A livello internazionale sono stati favorevoli al libero movimento dei capitali e al sistema di cambi flessibili che caratterizzarono il cosiddetto Washington consensus degli anni novanta. Fu Rudiger Dornbusch, economista dell’Mit e tra i principali mentori di Draghi, a definire la lotta alla “democrazia del denaro” come il grande obiettivo della sua generazione. Dopo il crollo del sistema finanziario di Bretton Woods e la parità oro-dollaro, nel 1971, i principali nemici del buon governo economico diventarono i sindacati che chiedevano in modo miope salari più alti, e i politici a caccia di voti. Una volta tenuti a bada i sindacati e ridimensionati i politici, gli economisti della scuola di Chicago speravano che i prezzi si sarebbero stabilizzati attraverso semplici meccanismi monetari.

All’inizio degli anni ottanta, tuttavia, questa speranza si dimostrò vana. Secondo gli economisti dell’Mit, per scongiurare il rischio della “democrazia del denaro” era necessario affidare il controllo di quest’ultimo a esperti competenti, credibilmente impegnati a fornire ai mercati il quadro stabile di cui avevano bisogno. La banca centrale indipendente era il loro bastione istituzionale.
All’inizio degli anni novanta Yellen era ormai diventata una figura influente nei circoli neokeynesiani. Nessuno si stupì, quindi, quando fu chiamata da Laura D’Andrea Tyson, direttrice del consiglio dei consulenti economici del presidente Bill Clinton e a sua volta ricercatrice dell’Mit. Nel 1994 Yellen fu nominata insieme ad Alan Blinder nel consiglio della Fed con il compito di controbilanciare l’approccio wallstreet-centrico del presidente Alan Greenspan. Sarebbe stata un’esperienza traumatica per entrambi.
Determinato a spegnere sul nascere ogni possibile focolaio d’inflazione, nel 1994 Greenspan alzò i tassi d’interesse scatenando una violenta corsa alle vendite sul mercato obbligazionario. Il conseguente “massacro obbligazionario” segnò il primo mandato dell’amministrazione Clinton, tanto che James Carville, consulente politico del presidente, dichiarò di volersi reincarnare nel mercato obbligazionario perché così – diceva – avrebbe potuto mettere paura a tutti. In realtà, le tensioni non riguardavano l’economia, dove l’inflazione stava rientrando, né l’amministrazione Clinton, che stava facendo di tutto per dare prova del suo conservatorismo in politica economica. Il problema era all’interno della Fed, dove Greenspan si era ritagliato il ruolo del direttore d’orchestra.
Incapace di esercitare qualsiasi influenza, Blinder lasciò il consiglio della Fed nel 1996. Yellen abbandonò un anno dopo, per sostituire D’Andrea Tyson alla guida dei consulenti economici di Clinton. Passati i fasti dell’epoca di Ronald Reagan, economisti come Robert Rubin e Larry Summers cercarono di proporre un nuovo modello economico capace di conciliare la disciplina di bilancio con la crescita e la piena occupazione. Yellen era tra le fautrici più convinte di questa new economy, in cui gli investimenti privati avrebbero fatto da volano alla crescita della produttività. Per favorire la concorrenza, il team economico di Clinton rafforzò il trattato Nafta (North american free trade agreement, accordo nordamericano per il libero scambio), e poi spianò la strada alla modernizzazione finanziaria attraverso l’abrogazione di leggi come il Glass-Steagall act (che separava le banche commerciali e le banche d’investimento), e l’allentamento dei controlli su Wall street. Anche la politica ambientale faceva parte del pacchetto. Nel 1998 Yellen ebbe un ruolo non proprio lusinghiero nella furiosa battaglia al congresso per l’approvazione del protocollo di Kyoto: i suoi calcoli dimostravano che gli Stati Uniti avrebbero potuto mantenere i costi bassi comprando crediti di carbonio dai paesi falliti dell’ex blocco sovietico.

Il programma di riforme degli anni novanta, quindi, era un progetto a lungo termine. La questione era se il nuovo partito democratico di Clinton fosse in grado di avere una maggioranza solida. Il partito era sempre più dominato da una classe di cittadini istruiti. Clinton vinse nel 1992 e poi di nuovo nel 1996. Al congresso, però, andò diversamente. Le elezioni di metà mandato del 1994 furono un disastro che consegnò il potere alla destra del Partito repubblicano. Convinti di avere la storia dalla loro parte, i tecnocrati modernizzatori del Partito democratico si ritrovarono di fronte a una rinascita del conservatorismo. Alla prova dei fatti, la rapida trasformazione sociale, culturale ed economica degli Stati Uniti stava spaccando il paese in due.
Lo scenario politico italiano degli anni novanta, quello in cui Draghi si mise in luce, era molto più vicino a una vera rivoluzione. Anche l’Italia era divisa sull’eredità degli anni sessanta e settanta, ma la fine della guerra fredda e lo scandalo di Tangentopoli avevano spazzato via il sistema dei partiti. Il crollo della Democrazia cristiana aveva portato alla nascita di una nuova destra, capeggiata da Silvio Berlusconi e dalla Lega nord. Nel frattempo tutti gli italiani che a partire dagli anni settanta avevano gravitato intorno al compromesso storico, tra l’eurocomunismo e la sinistra democristiana, trovarono una risposta nell’Unione europea. L’Italia, sostenevano, si sarebbe modernizzata grazie alla disciplina imposta dal cosiddetto vincolo esterno: una serie di regole illuminate decise a Bruxelles e un mercato unico europeo, successivamente completato da un’unione monetaria, avrebbero alzato l’asticella della concorrenza ed estirpato la corruzione e l’inefficienza. Questo bisogno di un puntello esterno è ancora oggetto di animate discussioni tra i riformisti italiani, ma la ricerca del vincolo non è solo una bizzarria italiana. L’ordine finanziario mondiale creato dalle élite economiche si è sempre basato sull’imposizione di vincoli alle autorità politiche e finanziarie. Negli anni ottanta strumenti come l’ancoraggio del valore di alcune monete alle valute più pregiate per stabilizzare i cambi erano molto diffusi sia in Asia sia in Europa come segnale di autodisciplina verso i mercati finanziari.
Su questo aspetto, però, le raccomandazioni degli economisti erano ambigue. L’ancoraggio a istituzioni come la Bundesbank tedesca per contenere l’inflazione aveva dei vantaggi, ma per quanto gli economisti più in vista invocassero la stabilità dei prezzi, sia la scuola di Chicago sia quella dell’Mit preferivano un sistema di cambi flessibili. Per garantire la stabilità dei prezzi, sostenevano, serviva una politica monetaria nazionale responsabile.
Dal punto di vista degli Stati Uniti era una conclusione logica, ma dava per consolidato l’ordine esistente degli stati-nazione, proprio quello che il processo d’integrazione europeo stava mettendo in discussione. Il progetto dell’unione monetaria si fondava sulla scommessa di una futura convergenza e sulla creazione di una struttura più articolata per la politica di bilancio comune. In ultima analisi, prevedeva che l’emergere di una cittadinanza e di una società europea avrebbe facilitato i processi decisionali comuni e la mobilità del lavoro. Quello europeo, insomma, era un progetto di trasformazione radicale.
Draghi fu chiamato da Berlusconi nel 2006 per fare il governatore della Banca d’Italia
L’unione monetaria
Per l’Italia, dopo la firma del trattato di Maastricht nel 1992, l’ingresso nell’unione monetaria sembrava un’ipotesi remota. La politica era in agitazione, la mafia aveva ucciso il magistrato Giovanni Falcone in un attacco senza precedenti, le finanze pubbliche erano nel caos. Nel settembre del 1992 l’Italia e il Regno Unito erano uscite dal Sistema monetario europeo (Sme), l’anticamera dell’unione monetaria. Draghi era nel pieno della battaglia. Tornato in Italia alla fine degli anni settanta, aveva girato varie università italiane fino al 1984, quand’era diventato direttore esecutivo della Banca mondiale a Washington. Nel 1991 il presidente del consiglio Giulio Andreotti, il tessitore di tutte le trame politiche democristiane, lo aveva richiamato a Roma nominandolo direttore generale del ministero del tesoro. L’unico partito di Draghi, tuttavia, era quello del vincolo esterno. Di fronte alla crisi del 1992 la scelta era chiara: a differenza del Regno Unito, l’Italia avrebbe fatto di tutto per riagganciare il treno dell’unione monetaria europea. Per ridurre il deficit di bilancio, Draghi raccomandò il contenimento della spesa pubblica. Per abbassare il debito favorì la privatizzazione su larga scala delle enormi aziende di stato italiane. Da uomo di mercato, spinse anche il tesoro ad adottare tecniche d’ingegneria fiscale per gestire l’enorme debito pubblico.
I costi furono considerevoli. La crescita rallentò bruscamente. Molti ex insegnanti di Draghi all’Mit, tra cui Franco Modigliani, suo relatore ai tempi del dottorato, espressero dubbi sui rigidi parametri di Maastricht per l’ingresso nell’euro. Ma gli europei andarono avanti, e per l’Italia, almeno fino all’inizio degli anni duemila, il piano sembrava funzionare. Anche se l’austerità aveva rallentato la crescita del paese bloccando gli aumenti di produttività, la camicia di forza aveva retto. Nel 2001 Berlusconi vinse di nuovo le elezioni e diventò per la seconda volta presidente del consiglio, ma si ritrovò con uno spazio di manovra ridotto. Gli italiani, intanto, non erano più visti come “quelli del vincolo esterno”, ma avevano acquisito un certo peso a Bruxelles. Romano Prodi, presidente della commissione europea tra il 1999 e il 2004, gestì l’arrivo della moneta unica. Mario Monti impostò le politiche dell’Unione in materia di tassazione e concorrenza. Alla Bce Tommaso Padoa-Schioppa era considerato da molti il padre intellettuale dell’euro. Il vincolo esterno non era semplicemente una resa, ma un modo per l’Italia di guadagnare credito e potere negoziale in Europa.
Nel frattempo Draghi, dopo qualche anno passato alla Goldman Sachs (una delle maggiori banche d’affari del mondo), fu richiamato da Berlusconi a gennaio del 2006 per fare il governatore della Banca d’Italia. Anche se l’istituto era in crisi per alcune accuse d’irregolarità contro il governatore uscente, Antonio Fazio, il quadro economico era incoraggiante. Per l’Italia, come per la Grecia, il costo del denaro era ai minimi storici. La relazione simbiotica tra finanza pubblica, mercati e banche d’investimento, che Draghi aveva contribuito a creare, sembrava funzionare alla perfezione.
Negli Stati Uniti, invece, all’inizio degli anni duemila stava diventando drammaticamente evidente proprio l’assenza di qualsiasi tipo di vincolo esterno. Spinta dalla destra nazionalista, la politica non solo si era polarizzata al suo interno, ma si era liberata da una serie di norme prevalenti in Europa. Si dice giustamente che Berlusconi è stato il padrino del populismo oligarchico moderno. Ma a parte qualche strizzata d’occhio allo scetticismo sul clima, l’Italia di Berlusconi non è mai uscita dal solco europeo. Negli Stati Uniti anche le norme democratiche più elementari sembravano messe in dubbio. Alle elezioni del 2000, anche se Al Gore aveva conquistato più voti, i giudici della corte suprema nominati dal padre di
George W. Bush consegnarono a quest’ultimo la vittoria. Il bilancio fu massacrato da una serie di tagli alle tasse spietati e iniqui e dalle guerre di Bush. Economisti come Paul Krugman scelsero l’opposizione radicale, mentre Yellen optò per una soluzione più moderata. Invece di scendere in piazza, nel giugno 2004 accettò l’incarico di presidente della Fed di San Francisco. La scelta cadde su di lei anche perché si era guadagnata la reputazione di “aperta sostenitrice della responsabilità di bilancio”, che nel 2004 era un’arma per battere i repubblicani.

Mentre Yellen era impegnata alla Fed, altri discepoli della new economy dell’era Clinton cercavano la loro versione del vincolo esterno. Il ricordo delle pressioni dei mercati obbligazionari nel 1994 era ancora vivo. L’avventatezza con cui l’amministrazione Bush stava gestendo il deficit, pensavano, presto sarebbe stata punita. Lo scenario più probabile era un attacco dalla Cina, il principale detentore di debito statunitense. Pechino avrebbe venduto i titoli di stato, il dollaro sarebbe crollato e i tassi d’interesse sarebbero schizzati alle stelle. I repubblicani avrebbero imparato che nessuno è al di sopra delle regole dell’economia. Il vincolo esterno statunitense, però, non arrivò mai. Il dollaro restò sovrano. Lo shock arrivò dall’interno: la crisi finanziaria del 2008 spazzò via i repubblicani dalla Casa Bianca. Non era però la crisi che avevano previsto i tecnocrati democratici. Non saltarono, infatti, i titoli di stato, ma i titoli garantiti dai mutui ipotecari e le banche.
La cosa imbarazzante era che mentre sulla politica di bilancio e sul deficit commerciale si poteva puntare il dito contro l’irresponsabilità dei repubblicani, sul settore finanziario non c’era nessuna differenza tra i partiti né, in realtà, tra gli statunitensi e gli europei. Nell’amministrazione Clinton la deregolamentazione del settore finanziario era stata gestita da Summers al dipartimento del tesoro, ma Yellen, da direttrice del consiglio dei consulenti economici, non aveva sollevato obiezioni. Né c’era stata alcuna resistenza dall’altra parte dell’Atlantico.
Yellen, almeno, non aveva commesso il passo falso di Draghi, che in passato aveva lavorato per la Goldman Sachs, o di Summers, che aveva collaborato con un fondo speculativo, o di Rubin, che aveva diretto il gruppo bancario Citigroup. Anzi, da presidente della Fed di San Francisco aveva perfino colto le prime avvisaglie di una crisi immobiliare. Tuttavia, ancora nel luglio del 2007 dichiarava: “Dal punto di vista della politica monetaria, non ritengo molto probabile che gli sviluppi legati ai mutui subprime avranno un grande effetto sull’andamento economico complessivo degli Stati Uniti, anche se costituiscono un ulteriore elemento di rischio”. Pochi mesi dopo, Draghi, in veste di governatore della Banca d’Italia e presidente del Financial stability board (Fsb, Consiglio per la stabilità finanziaria, un’organizzazione legata al G20 che monitora il sistema finanziario globale), fece un discorso sulla trasformazione del settore finanziario europeo a Francoforte in cui riconosceva che il mercato dei titoli legati ai mutui ipotecari era in crisi, ma spiegava che il compito di trovare la soluzione spettava al settore privato. Nel suo discorso non c’era nessun accenno al rischio sistemico per le attività d’investimento dei colossi bancari europei né al legame mortale tra banche europee e debito pubblico. Ci si rese conto del rischio quando ormai era troppo tardi.
Una volta arrivata la crisi, le corrette misure economiche da applicare erano ovvie, almeno in linea di massima. Gli Stati Uniti avevano bisogno di uno stimolo economico: l’unica domanda era quanto grande. Sul team di economisti del presidente Barack Obama, quasi tutti scelti dal circolo di Rubin, aleggiava ancora lo spettro degli anni ottanta e alla fine prevalsero le preoccupazioni sulla sostenibilità del debito. Come osservarono da subito alcuni esperti, in particolare Krugman, lo stimolo di Obama del 2009 non era sufficiente: era circa la metà di quanto serviva. La direttrice del consiglio dei consulenti economici di Obama, Christina Romer, ex collega di Yellen a Berkeley, aveva valutato correttamente la posta in gioco, ma era stata messa in minoranza. Le proteste degli economisti conservatori non aiutarono. Nel frattempo, l’opposizione repubblicana al congresso accerchiò l’amministrazione Obama fino a quando, alle elezioni di metà mandato del 2010, non riconquistò il potere. Mentre i democratici costruivano la loro coalizione di esperti multietnica per una nuova America, la temperatura a destra continuava a salire.
Nel 2015 Draghi lanciò finalmente un programma di quantitative easing
In mancanza di uno stimolo economico adeguato, il compito di raccogliere i pezzi spettava alla Fed. Anche se era stato nominato dai repubblicani, che lo avevano scelto dagli stessi ambienti dell’Mit di Draghi, il nuovo presidente Ben Bernanke collaborò con l’amministrazione democratica. Per rafforzare la linea conciliatrice all’interno della Fed, nell’aprile del 2010 Obama nominò Yellen nel consiglio della banca, questa volta nel ruolo più scomodo di vicepresidente. Di fronte a un congresso controllato dai repubblicani e a una paralisi nelle politiche di bilancio, Yellen diventò una delle più aperte sostenitrici dello stimolo monetario.
Panico sui mercati
Per sua fortuna, nel 2008 l’Italia non era tra i paesi più colpiti dalla crisi finanziaria. Certo, dall’ingresso nell’euro la crescita dal paese non era stata incoraggiante, ma almeno le banche non erano rimaste coinvolte nel boom dei mutui. L’ultima cosa che il tesoro italiano poteva permettersi, però, era un’esplosione generalizzata di panico sui mercati del debito pubblico, esattamente quella che scoppiò nel 2010 in Grecia, Irlanda e Portogallo. Nel 2011, quindi, Draghi si ritrovò al centro del tentativo disperato di evitare una catastrofe nell’eurozona. Per fare questo, però, prima bisognava risolvere il problema Berlusconi, e con mezzi più persuasivi del vincolo esterno. Ci voleva una spinta dall’interno: nell’agosto 2011, Draghi e il presidente della Bce Jean-Claude Trichet scrissero una lettera riservata al presidente del consiglio italiano chiedendogli di fare tagli drastici, se necessario attraverso l’applicazione di leggi d’emergenza. Berlusconi tentennò, anche perché nel frattempo aveva perso il controllo del parlamento, ma a quel punto era già pronto il suo possibile sostituto. Il nome di Draghi era venuto fuori in diverse occasioni come possibile presidente del consiglio, ma all’epoca il governatore della Banca d’Italia era stato già designato come successore di Trichet alla Bce. La scelta cadde su Mario Monti, economista ed ex commissario europeo che negli anni settanta aveva studiato a Yale con James Tobin, relatore della tesi di dottorato di Yellen.
Lavorando a stretto contatto con la Spagna, Monti spinse per una serie di passaggi fondamentali per l’unione bancaria, preparando la strada al famoso whatever it takes di Draghi nella primavera del 2012. I mercati finanziari si tranquillizzarono. Il prezzo da pagare, però, fu la destabilizzazione della democrazia europea. All’inizio, la reazione dell’opinione pubblica all’avvicendamento tra Berlusconi e Monti fu largamente favorevole. Per gli italiani, in fondo, la crisi era tale da giustificare un’eccezione democratica. La luna di miele, però, non durò a lungo. Sull’onda dell’indignazione per la linea dura del governo sulla politica di bilancio e per la presunta indifferenza di Monti alla crisi sociale che attanagliava l’Italia, alle elezioni politiche del febbraio 2013 il Movimento cinque stelle, dichiaratamente euroscettico, conquistò il 25 per cento dei voti. L’onda populista cominciò a diffondersi in tutta Europa. In Germania il partito di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd, Alternativa per la Germania) s’impose nel 2013 in aperta polemica con le politiche di Draghi alla Bce. In Francia il Fronte nazionale guadagnò un’enorme popolarità. In Spagna e in Grecia Podemos e Syriza erano schierati su posizioni populiste di sinistra. Draghi era detestato. Il vero bersaglio, però, era il vincolo esterno, il meccanismo astratto che soffocava sul nascere qualsiasi iniziativa.
Nonostante le parole di Draghi, nel 2012 la Bce non fece nessun intervento. L’eurozona scivolava sempre più verso la recessione. Fu la Fed ad agire: nel settembre 2012 annunciò un nuovo quantitative easing, un programma d’acquisto di titoli di stato a tempo indeterminato che aveva lo scopo di tenere al minimo i tassi d’interesse. Con una politica di bilancio paralizzata dallo stallo tra il congresso dominato dai repubblicani e l’amministrazione Obama, Bernanke, appoggiato da Yellen, s’impegnò a tenere il piede premuto sull’acceleratore finché il tasso di disoccupazione non fosse sceso sotto il 6 per cento.

La sinistra del partito democratico, intanto, era in agitazione. Quando si pose il problema di trovare il sostituto di Bernanke, l’ipotesi Summers fu respinta da molti. Così, nonostante il suo passato da clintoniana, nel febbraio 2014 Yellen emerse come compromesso perfetto. Era arrivata alla guida della più importante istituzione finanziaria del mondo per il suo curriculum di studiosa e alta funzionaria, ma anche grazie alla sua astuzia nel posizionarsi politicamente. In un contesto sempre più polarizzato, non esisteva per definizione la figura del tecnico super partes. E, almeno all’inizio, Yellen ripagò la fiducia della sinistra mantenendo il quantitative easing fino all’ottobre 2014, quando il tasso di disoccupazione scese intorno al 5 per cento.
Politiche di stimolo
Se la ripresa negli Stati Uniti era drammaticamente lenta, la situazione in Europa era peggiore. Il whatever it takes di Draghi aveva fermato la fase più acuta della crisi dei titoli di stato, ma nel 2014 l’eurozona era sull’orlo della deflazione e di una nuova recessione. Draghi, fino a quel momento convinto sostenitore del risanamento dei conti pubblici, ora invocava politiche di stimolo. Il whatever it takes della banca centrale poteva funzionare solo fino a un certo punto. Il problema, però, era che a Berlino non c’erano ex dottorandi dell’Mit. Con il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble testardamente impegnato a perseguire surplus di bilancio, il vincolo esterno stava strozzando l’eurozona.
La mancanza di una politica economica in grado di rispondere alla crisi andava contro tutti i presupposti macroeconomici della scuola dell’Mit degli anni settanta. Dov’erano i politici spendaccioni quando servivano? Lo stimolo economico eccessivamente timido dell’amministrazione Obama poteva essere spiegato da calcoli sbagliati o dalla faziosità dei repubblicani. Ma che una maggioranza centrista nel cuore dell’Europa, di fronte alla minaccia dei populisti di destra e di sinistra, scegliesse d’immolarsi sull’altare dell’equilibrio di bilancio non faceva parte dei piani.
Toccava quindi alla Bce intervenire. Nel 2015, sfidando il terrore dei conservatori tedeschi, Draghi lanciò finalmente un programma di quantitative easing, che ebbe straordinarie ricadute politiche: permise al consiglio europeo di tenere la linea dura con il governo di sinistra in Grecia senza scatenare il panico sul mercato dei titoli di stato; mise al riparo l’Europa durante la crisi dei migranti; in una certa misura mitigò anche gli effetti dell’improvvisa frenata della Cina. Si potrebbe dire che segnò l’americanizzazione della Bce.

Proprio in quel momento, però, cominciò a delinearsi una divisione fatale tra l’Europa e gli Stati Uniti. Mentre Draghi pompava liquidità nel sistema finanziario europeo, Yellen cominciava a valutare la possibilità di alzare i tassi d’interesse. A sette anni dal crollo della Lehman Brothers, la maggioranza del consiglio della Fed era tornata a spingere per una stretta monetaria. Il punto non era tanto l’esuberanza eccessiva dell’economia statunitense, quanto il profondo disagio del consiglio per i tassi d’interesse fermi a zero, che alimentavano la speculazione sui mercati finanziari e lasciavano la Fed senza strumenti in caso di un rallentamento dell’economia. Nel 2015 i prezzi delle materie prime erano crollati, la Cina sembrava in difficoltà e anche i mercati finanziari stavano vacillando.
A dispetto di tutto questo, il 16 dicembre 2015 Yellen annunciò un imminente rialzo dei tassi d’interesse. “Ho fiducia nei fondamentali dell’economia statunitense, nella salute delle famiglie e nella spesa interna”, spiegò. “Ci sono pressioni su alcuni settori dell’economia, in particolare quello manifatturiero e il settore energetico, ma a mio avviso lo stato di salute dell’economia statunitense è abbastanza buono”. A quel punto sedici milioni di statunitensi, pari al 9,9 per cento della forza lavoro, erano ancora disoccupati o sottoccupati. Dopo anni di stimoli economici insufficienti, l’inflazione era al 2 per cento, ma se si escludeva il settore immobiliare, che si stava riprendendo dalla crisi, era vicina all’1 per cento.
Con la Bce che spingeva nella direzione opposta, la torsione imposta all’economia statunitense fu particolarmente dolorosa. Nei primi tre anni del mandato di Yellen alla Fed l’apprezzamento del dollaro superò il 26 per cento. Il settore manifatturiero fu duramente colpito. Molti stati statunitensi entrarono nel 2016 – l’anno delle elezioni – affrontando una mini-recessione. In tanti collegi elettorali le fabbriche stavano chiudendo e le prospettive erano disperate. Nel dicembre 2015 il senatore democratico Bernie Sanders non aveva esitato ad attaccare Yellen per quella che a suo avviso era una stretta ampiamente prematura. Nel 2016 Donald Trump sparse altro veleno accusando la Fed di essere d’accordo con i democratici, e coronò la sua campagna elettorale con l’attacco più antisemita della storia recente degli Stati Uniti, mettendo alla gogna Yellen insieme a George Soros e a Lloyd Blankfein, l’amministratore delegato della Goldman Sachs. Yellen era arrivata alla presidenza della Fed da candidata della sinistra moderata. Con il trionfo di Trump e della destra radicale la sua sorte era segnata.
L’Europa, invece, sembrava in un primo momento aver schivato il proiettile del populismo. Alle elezioni francesi del 2017 Macron sconfisse Marine Le Pen e il Fronte nazionale. In Italia, però, la pressione stava montando, e nel 2018 la strategia del vincolo esterno saltò definitivamente. Alle elezioni di marzo due partiti euroscettici, Lega e Movimento cinque stelle, si attestarono sul 50 per cento. Fu necessario l’intervento del presidente della repubblica Sergio Mattarella per evitare che Paolo Savona, un professore apertamente contrario all’euro, diventasse ministro dell’economia. L’Europa non era un cappio per l’Italia, sottolineò Mattarella, ma la garanzia del suo futuro. I mercati reagirono spaventati. Come nel 2011, si parlava di spirale della morte del debito italiano.
Nessuno può accusare l’amministrazione Biden di essere apolitica
Finché c’era la Bce a puntellare il mercato l’Italia poteva reggersi in piedi, sia pure a fatica. Il problema era che il quantitative easing non era riuscito a rilanciare la crescita dell’economia. Nel 2019 l’Europa rischiava nuovamente di scivolare nella deflazione. L’Italia era rimasta ancora più indietro. Il pil pro capite del paese era di circa 3 punti percentuali più basso rispetto al 2000: due decenni di crescita perduta. Mentre Draghi invocava l’intervento della politica economica, Berlino continuava a puntare i piedi. Nel settembre 2019, in una mossa disperata, Draghi annunciò un altro ciclo di quantitative easing, attirandosi ancora una volta un fiume di proteste dalla Germania.
Secondo l’impostazione macroeconomica degli anni settanta alla base della formazione di Draghi e Yellen, un mercato correttamente strutturato avrebbe dovuto favorire naturalmente la crescita. I sistemi finanziari ben regolati sono stabili. Il compito principale degli economisti è educare e frenare i politici per fare in modo che l’inflazione sia tenuta sotto controllo e che il debito pubblico sia sostenibile. Negli Stati Uniti, questo processo è stato istituzionalizzato e si basava su una negoziazione tra le classi dirigenti dei due partiti per gestire congiuntamente il bilancio, le principali autorità di vigilanza e la Fed; in Europa è ancora in divenire. Ripercorrere le carriere di Yellen e Draghi vuol dire fare i conti con il naufragio di queste aspettative.
L’instabilità finanziaria è un rischio mortale. Per il momento è stata scongiurata. Nel 2020, però, il mondo si è accorto che basta poco a destabilizzare anche il mercato finanziario più grande del mondo, quello dei buoni del tesoro statunitensi. Per arginare questo rischio, la Fed e la Bce – guidate rispettivamente da Jerome Powell e Christine Lagarde, nessuno dei quali è un economista – hanno adottato un approccio straordinariamente espansivo alla stabilizzazione. L’inflazione, un tempo considerata la minaccia più grave, non è più una prospettiva realistica e, anche se dovesse riaffacciarsi, può essere tranquillamente gestita dalle banche centrali. La priorità è far ripartire la crescita e creare i presupposti per la stabilità dell’ordine democratico, sia negli Stati Uniti sia nelle parti più deboli dell’eurozona, di cui l’Italia è di gran lunga la più importante.
In Italia la crisi del 2020 ha creato le condizioni politiche che i sostenitori del vincolo esterno non avrebbero mai potuto immaginare: sospensione dei vincoli di bilancio, stabilizzazione del mercato dei titoli di stato da parte della Bce, iniezione di investimenti e fondi dall’Unione pari al 10 per cento del pil italiano, un clima politico in Germania largamente favorevole all’intervento. Ora la domanda è se l’Italia sarà in grado di ricaricare il motore della crescita. O è tardi? I danni causati da vent’anni di stagnazione sono troppo profondi? La situazione globale è diventata troppo difficile per un’economia orientata alle esportazioni come quella italiana?

Da una parte, è giusto che il compito di far partire il NextGenEu spetti a uno degli architetti originali della strategia del vincolo esterno del 1992. Dall’altra, è anche la dimostrazione del fallimento di quel progetto. Senza mettere in discussione le qualità personali di Draghi, la classe politica italiana sta abdicando a favore di un tecnico non eletto. Il fatto che Draghi sia al potere si deve alle manovre di Matteo Renzi, un tempo considerato il giovane campione del centrosinistra e oggi ridotto al ruolo di guastatore. Matteo Salvini, il leader della Lega, sta prendendo tempo. L’unica opzione che nessuno ha preso in considerazione dopo la caduta del governo Conte sono state le elezioni.
Intelligentemente Draghi non ha fatto l’errore di Monti: non ha formato un governo di tecnici, ma ha nominato i rappresentanti dei partiti, che in questo modo non potranno chiamarsi fuori dalle responsabilità o sparare sull’esecutivo dall’esterno. Al centro, però, c’è sempre Draghi. L’ex presidente della Bce non è una figura di compromesso come Giuseppe Conte. Le aspettative su Draghi sono di altro livello: lui è “Super Mario”. Non si sfugge al fatto che di fronte a una sfida storica decisiva – far ripartire la crescita dopo decenni di stagnazione – la classe politica italiana abbia deciso di delegare il potere esecutivo a un tecnico. È la grande vittoria della tecnocrazia, ma è anche una sfida da “o la va o la spacca”. Se la combinazione di Draghi e del NextGenEu non riuscisse a far ripartire la crescita, che succederà?
Nessuno, invece, può accusare l’amministrazione Biden di essere apolitica. La parola d’ordine della Casa Bianca e dei democratici al congresso è non farsi risucchiare dalla logica delle amministrazioni Clinton e Obama. Nella situazione attuale la cosa più irresponsabile da fare sarebbe essere “responsabili” sulla politica di bilancio. Nonostante il suo curriculum, in particolare sul tema della disciplina di bilancio, Yellen è emersa ancora una volta come la candidata al tesoro più accettabile per la sinistra del Partito democratico. Nel 2016, mentre la Fed continuava ad alzare i tassi, Yellen invocava una politica in grado di garantire la piena occupazione e di risollevare anche le fasce più basse del mercato del lavoro. L’idea era un retaggio del passato. Era stata originariamente formulata da Arthur Okun, un importante economista di Yale all’inizio degli anni settanta che come Tobin era tra i consulenti economici della Casa Bianca negli anni sessanta.
La posta in gioco del gigantesco piano di stimolo dell’amministrazione Biden non è solo la crisi sociale provocata dalla distruzione del mercato del lavoro statunitense. Visto quello che sta succedendo nel Partito repubblicano, per assicurare un futuro liberale alla democrazia statunitense è fondamentale che l’amministrazione Biden non perda il controllo del congresso. Mentre Draghi si prepara alla battaglia finale per la strategia tecnocratica del vincolo esterno, Yellen ha legato il suo destino alla causa della politica.
Il team degli economisti del tesoro e la Casa Bianca continuano a dare giustificazioni tecniche: secondo le loro stime, la paura di un surriscaldamento dell’economia è eccessiva. Ma il piano di stimolo è soprattutto il frutto di un calcolo politico. Il sottilissimo equilibro al congresso dà forza contrattuale non solo al centro del partito democratico, ma anche alla sinistra. Per quest’ultima, un’amministrazione democratica deve rispondere alle persone che l’hanno votata. Ogni tentativo di trovare un terreno comune con i repubblicani è stato abbandonato. Il risultato è quello che viene considerato il più ambizioso scostamento dal consenso politico generale dagli anni ottanta. Significa accettare, come ha osservato Krugman, che negli Stati Uniti del ventunesimo secolo tutto è politico. I repubblicani hanno imboccato questa strada dagli anni novanta, e ora anche i democratici si stanno adeguando.
Il pacchetto di stimolo di Biden, l’American rescue plan, è stato approvato tra le vivaci proteste di molti esperti, tra cui anche un presunto alleato come Summers. La sinistra ha festeggiato, ma Summers ha fatto almeno un’osservazione importante: il piano rappresenta una risposta alla crisi e darà senza dubbio una spinta all’economia, ma durerà? Tutto si può dire del piano tranne che dia risposte a lungo termine. Se la vera sfida strategica della politica progressista, sia negli Stati Uniti sia in Europa, è trovare un nuovo modello di crescita economica inclusiva ed ecologicamente sostenibile, allora l’amministrazione Biden deve ancora affrontarla. Tutto, in realtà, ruota intorno a un futuro piano infrastrutturale promesso, che sarà la vera risposta al NextGenEu.
Negli anni novanta non c’era bisogno di essere un ingenuo sostenitore della tesi post-guerra fredda della fine della storia per capire quale fosse la direzione di marcia della politica globale. Il futuro era della globalizzazione e dei mercati, più o meno regolati. Gli Stati Uniti hanno dettato il passo, mettendo i governi di fronte alla scelta tra azione immediata e benefici a lungo termine, proprio il problema discusso da Draghi nella sua tesi di dottorato all’Mit negli anni settanta. Il dramma di Draghi e Yellen nel loro atto finale è che per entrambi, e non solo per ragioni personali, questa scelta non è più così netta. Se la politica a breve termine fallisce, la partita a lungo termine rischia di non poter essere vinta. Whatever it takes non ha mai significato tanto come oggi. ◆ fsa
Adam Tooze è uno storico britannico e insegna alla Columbia university, negli Stati Uniti. Ha scritto Lo schianto. 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo (Mondadori 2018).
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Questo articolo è uscito sul numero 1413 di Internazionale, a pagina 42. Compra questo numero | Abbonati