Ha piovuto tutta la notte: una pioggia furibonda, fuori stagione, da un cielo incerto. Dio ha perso ogni senso delle proporzioni, dicono i locali, come un autista di pullman che va a passo di lumaca in autostrada e sfreccia su una via piena di dossi. Ma il mattino è limpido, e il fiume, gonfio per l’afflusso d’acqua dalle montagne vicine, vortica sotto il ponte scorrendo verso l’estrattore di limo.
Qui sono raggruppati i pescatori, una decina. I loro shalwar (pantaloni), arrotolati fino alle ginocchia, sfiorano la superficie dell’acqua; i loro matka (vasi) di acciaio scintillano al sole. Le reti spuntano fuori senza fine, come fazzoletti dalla tasca di un mago. Gettandole nell’acqua, i pescatori le stendono per bene attraverso il canale. Poi aspettano. Pescare vicino all’estrattore di limo, che fa rifluire i sedimenti nel fiume, è contro la legge. Ma lo sono anche molte altre cose.
Dall’alto del ponte, qualcuno osserva i pescatori. I minuti passano. Gli uomini in acqua tornano a muoversi. “Uomini” in realtà è un termine sbagliato: molti sono bambini che aiutano padri, zii e nonni. È aprile inoltrato, quasi al termine della stagione della pesca, e il fiume è pieno soprattutto di jhalli, un pesce sottile, insignificante, roba da poco. Il jhalli non rende molto al mercato. Ha troppe spine: spine appuntite che graffiano la gola e spine piumose che fanno il solletico. Ma da morto è una creatura servizievole. La carne si stacca facilmente e si può mangiare con un pizzico di sale. A monte, in un’altra lingua, jhalli significa ragazza spensierata, che non sa come va il mondo o forse semplicemente non se ne cura.
I jhalli di questo fiume probabilmente sono già sfuggiti alla morte molte volte. A seconda di dov’è cominciato il loro viaggio, sono sopravvissuti alla caduta dallo sfioratore della diga di Tarbela, che stordisce certi pesci e ne decapita altri; hanno schivato i cancelli mobili di vari sbarramenti; sono sfuggiti alle fauci di pesci più grandi. Il mastodontico mujahid è un compagno di viaggio particolarmente molesto. La leggenda vuole che a portarlo qui dalla Cina negli anni ottanta sia stato il generale Zia ul-Haq (presidente del Pakistan dal 1978 al 1988), che lo chiamò come i suoi amati combattenti jihadisti in Afghanistan. Il pesce ingrassa predando le specie autoctone: un’allegoria che ha la forza contundente di una caduta a precipizio dallo sfioratore.
Se qualche jhalli riesce a sottrarsi alle maglie della prima rete ne incontrerà presto altre sulla sua strada. Lungo tutto il fiume Indo – che scorre verso sud, piega a ovest e poi di nuovo torna a sud, uno svolazzo acquoso sulla carta geografica del Pakistan – uomini e donne, gettate le reti, stanno accovacciati nelle barche e sulla riva, in attesa.
I pescatori accanto all’estrattore di limo cominciano a districare i pesci dalle reti. Li gettano nelle matka o li scagliano contro gli scogli, dove i pesci si dimenano mandando bagliori d’argento. I bambini s’inginocchiano nell’acqua e tastano i bordi del canale con le mani, sotto i sassi e nelle fessure, per acchiappare eventuali jhalli rimasti incastrati. Più pesce significa qualche soldo in più. Intanto l’uomo sul ponte continua a osservare. Certe reti sono meno visibili di altre.
La recita
A Sonaar Mallah piace parlare. La sua voce sale all’improvviso, come uno stormo di uccelli che esplode in volo, e si lancia in un soliloquio sui pesci dell’Indo, catalogati per peso, dieta e densità di spine: “Ora, se parliamo di sapore, il pesce numero uno è il rohu. Il re. Poi ci sono i visir: morakhi, dhambra, thaila. C’è anche il malhi. Sì. Anche il mahli è buono. Il jhalli è più piccolo, ma ha più foga, più energia di altri”.
“Si è inventato un’intera corte sottomarina”, ride un vicino.
“Il jhalli è molto buono fritto”, interviene Bashiran Mai. Mentre la lingua del marito corre a briglia sciolta, lei sembra più schiva. La sua voce è sorprendentemente acuta, come uno sbattere di pentole. Siamo seduti sotto un albero di peepal nel cortile di Sonaar e Bashiran. Dai rami dondolano pigramente cesti di vimini; le reti da pesca pendono dai fili per stendere la biancheria. Una scimmietta saltella su e giù da un tronco, tirando la catena e guardandoci accigliata. Se si ritagliasse la mappa del Pakistan e si piegasse due volte, prima in orizzontale e poi in verticale, il centro si troverebbe vicino al luogo dove siamo seduti: Basti Allahwali, o villaggio di Dio, vicino alla città di Taunsa. Con la stessa radice della parola “sete”, Taunsa è un nome curioso per una città che sorge accanto a un fiume, soprattutto se è un fiume formidabile come l’Indo. È ancora più strano se si considera la provincia in cui Taunsa si trova: il Punjab, che letteralmente significa “cinque acque”.
Una volta interrotto il suo flusso di pensieri affollati di pesci, Sonaar fa una pausa con aria preoccupata. Si volta verso i familiari e i vicini accovacciati intorno a lui. C’è uno scambio di sguardi tesi e cospiratori. Poi torna a girarsi verso di me. Si potrebbe preparare del pesce, si dovrebbe preparare; ci vorrà un po’ di tempo, ma no, non è un problema. Questa è la battuta iniziale della recita tra ospite e padrone di casa che va eternamente in scena nei soggiorni di tutta l’Asia meridionale.
Tecnicamente, Sonaar sta dicendo una bugia, anche se per gentilezza. Molti abitanti di Basti Allahwali, tra i più antichi della regione, sono pescatori, ma raramente possono mangiare pesce oppure offrirlo ai loro ospiti. Quello che prendono è di proprietà degli appaltatori, uomini d’affari del luogo che detengono diritti esclusivi sul fiume e pagano salari da fame ai pescatori. Sonaar qualche volta riesce a portare di nascosto a casa un jhalli: lo infila sotto gli abiti o lo ficca nel berretto, facendolo dondolare trionfalmente davanti alla famiglia prima di cena. Il rischio è incredibilmente alto. I pescatori sono costantemente sorvegliati dagli scagnozzi degli appaltatori: se sono sorpresi in flagrante, ricevono una multa che equivale a mesi di salario. E questo è lo scenario migliore. Il peggiore è essere scaraventati a terra e frustati. O forse è il contrario. La frustata, dopotutto, dura poco. Una multa ti fa sprofondare ancora di più nella palude dei debiti, rimandandoti indietro di mesi, se non di anni. “Ne avrei fritto qualcuno per te”, dice Sonaar con aria di rammarico. “Pesce preso con le mie mani”.
Schiavi di fatto
Come si è arrivati a questo punto, com’è possibile che uomini e donne che pescano da una vita non possano mangiare il pesce? La risposta dei pescatori di Taunsa è unanime: la colpa è del sistema degli appalti, stabilito per legge nel 1961. Anche se la legislazione coloniale a cavallo tra l’ottocento e il novecento non regolamentava rigidamente l’accesso ai fiumi della regione – si preoccupava piuttosto di vietare gli esplosivi, il veleno e altre tecniche di pesca nocive –, di fatto la logica coloniale del prelievo delle entrate era già più o meno in vigore. Dopo l’indipendenza, il sistema degli appalti è stato formalizzato, ufficialmente per procurare entrate a un giovane paese a corto di soldi.
Ogni estate il governo divide il fiume in tratti, vendendo i diritti di pesca al maggiore offerente. Tutto il pesce diventa in pratica proprietà di chi vince l’appalto, perciò le comunità locali – che pescano in queste acque da secoli – non hanno altra scelta che lavorare per degli intermediari, invece di vendere direttamente i loro prodotti al mercato.
È l’appaltatore a dettare i termini del rapporto. È lui che stabilisce quanto pagare per un chilo di pesce, una somma ben lontana dal minimo per vivere, intrappolando rapidamente le famiglie dei pescatori in una spirale di debiti. Quindi l’appaltatore decide ogni aspetto della vita di un pescatore: propone prestiti e dirige i pescatori verso determinati negozi per vendergli prodotti a prezzi gonfiati che loro accettano di pagare con il lavoro; giudica le controversie familiari e combina i matrimoni. I debiti non finiscono con la morte: passano al parente più prossimo. Si calcola che lungo i cinque fiumi che attraversano il Punjab vivano 600mila pescatori. Oggi la maggior parte di loro lavora sotto questa forma di schiavitù del debito.
È per questo che, al posto del pesce, Bashiran tira fuori un narghilè. Lo sistema accanto al charpoy (una brandina di legno e corda) e aspira una boccata lunga e gorgogliante. Suo marito è un uomo muscoloso dall’energia nervosa; lei ha il viso più tondo e l’andatura più lenta, con occhi pensosi e un sorriso ozioso. Nella tradizione locale e imperiale, la pescatrice è un personaggio focoso e risoluto. Non ha pazienza con gli sciocchi: il sole sta tramontando, la sua merce si rovina, non c’è tempo da perdere. La figura della pescatrice è anche al cuore del mito fondatore di Karachi, la più grande città del Pakistan, dove oggi vivono oltre 14 milioni di persone. Molto tempo fa, una di loro balzò in mare per strappare il figlio dalla morsa di un pesce e diede il proprio nome alla città. Delle sette eroine popolari del paese, una è la pescatrice Noori, che sposò un re restando fedele al suo vecchio stile di vita. Tuttavia, quando Richard Francis Burton, un esploratore dell’ottocento che parlava 29 lingue ma era anche straordinariamente razzista, s’imbatté nelle pescatrici della regione, tutto quello che riuscì a cogliere fu la loro pelle arsa dal sole. “Macbeth non incontrò mai streghe come quelle che si vedono nella vecchia Moháni”, scrisse.
Molti abitanti di Basti Allahwali sono pescatori, ma raramente possono mangiare pesce oppure offrirlo ai loro ospiti
Bashiran, nonna con decine di nipoti, è un’eroina più moderna, fatta per tempi meno leggendari. Non ci sono mostri marini da sgominare né re da sposare. C’è, a centinaia di chilometri di distanza, un edificio dalle mura elevate: l’alta corte della provincia. Bashiran ha bussato alla sua porta per chiedere: “È proprio necessario che sia così?”.
È successo nell’agosto 2018, all’inizio della stagione della pesca. I preparativi per l’asta annuale delle acque dell’Indo erano già stati fatti – i bandi di gara pubblicati, le offerte dei pezzi grossi avanzate – quando la donna, un’analfabeta di poche parole, ha presentato una petizione scritta insieme ad altre due persone, sfidando gli stessi presupposti del sistema degli appalti. Perché il fiume e le sue ricchezze devono appartenere al miglior offerente? Perché un intermediario deve speculare sul loro lavoro?
Il giudice dell’alta corte ha accettato la petizione. E quando il procedimento ha avuto inizio, ha emesso un ordine di sospensione, l’equivalente giuridico di un time out: nessun’azione è consentita mentre il caso viene esaminato. Il governo, contro cui è stata promossa l’azione legale, non ha potuto procedere con le aste, non ha potuto vendere l’acqua. In passato altri tentativi di rovesciare il sistema erano falliti. Ma grazie alla firma di un giudice dell’alta corte, e al coraggio di tre persone, tutti i pescatori – improvvisamente, miracolosamente, ma forse solo temporaneamente – si sono ritrovati liberi. Il sistema era di fatto sospeso.
Secondo il ricercatore Siddharth Kara, al mondo ci sono più di 18 milioni di lavoratori ridotti in schiavitù a causa dei debiti, e più di quattro su cinque sono in Asia meridionale. Non c’è un’opinione condivisa sul perché questa forma di oppressione prevalga soprattutto qui. La spiegazione più comune, che si rifà al sistema delle caste, non convince: in fondo, ovunque ci sono classi economicamente e socialmente svantaggiate che rischiano di essere risucchiate in una spirale di debiti e coercizione. Storicamente la servitù per debiti è un fenomeno che ha riguardato tutto il mondo: la mezzadria nel sud degli Stati Uniti dopo la guerra civile, il feudalesimo nell’Europa medievale, ordinamenti simili nello shogunato giapponese, nell’antico Egitto e a Roma.
Esempi più recenti di lavoro forzato fuori dall’Asia meridionale sono offerti dal ricorso al lavoro dei detenuti negli Stati Uniti, dal programma canadese per lavoratori stagionali, che interessa migranti provenienti dal Messico e dai Caraibi, e dalla rinascita del sistema dei gangmaster (caporali) nel Regno Unito, che forniscono manodopera stagionale all’agricoltura, alla pesca di crostacei e molluschi e ai settori della lavorazione e dell’imballaggio. Contrariamente alla tesi secondo cui un’impresa capitalistica pienamente funzionante ha bisogno di lavoratori liberi, questi esempi dimostrano che i mercati moderni possono coesistere, e addirittura prosperare, grazie al lavoro di chi libero non è. Oggi, sulle spalle di chi è schiavo dei debiti si fanno profitti per più di cinquanta miliardi di dollari.
Per i pescatori dell’Indo e dei suoi affluenti, la schiavitù del debito non è una piaga antica, è una prerogativa del mondo moderno. I loro antenati hanno pescato liberamente per secoli, mentre intorno sorgevano e cadevano gli imperi e si formava il moderno stato-nazione. Bashiran definisce l’Indo di suo padre khulla, aperto, un aggettivo che generalmente si usa per definire il mare o il cielo. Il fiume era aperto sia in termini di accesso sia di flusso delle acque: quando si è cominciato a regolare il flusso con dighe e sbarramenti, è stato regolato anche l’accesso. A Taunsa le prime costruzioni sull’Indo risalgono agli anni cinquanta, quando fu costruito uno sbarramento, una struttura simile a una diga che devia l’acqua del fiume nei canali d’irrigazione.
Lo sbarramento di Taunsa fu ultimato nel 1958. Dall’alto somiglia a un braccialetto su un polso azzurro-verde. La sua funzione principale è deviare le acque dell’Indo in quattro grandi canali, ma è anche una strada e un ponte ferroviario, uno snodo per condutture di petrolio e metano, per cavi telefonici e linee di trasmissione ad altissima tensione. In poche parole, la modernità del ventesimo secolo.Un pescatore che vive nella zona dove l’Indo si riversa nel mar Arabico una volta mi ha raccontato una storia sul palla, che risale la corrente per deporre le uova. Mi ha detto che il pesce cambia colore durante il suo viaggio avanti e indietro: da nero diventa argento scintillante con una macchia rossa sulla testa. Il pescatore credeva che risalisse l’Indo per rendere omaggio al sacrario di un santo del fiume; la macchia nera è un tilak, il segno rosso che molti indù esibiscono sulla fronte. Oggi sempre meno palla ce l’hanno, ha osservato malinconicamente; le ostruzioni hanno impedito gli spostamenti della specie lungo il fiume, facendo diminuire il numero degli esemplari a valle.
E così, invece dei pesci hanno cominciato a muoversi i pescatori. Non ci sono cifre ufficiali, ma negli ultimi decenni la combinazione di costruzioni sul fiume, inondazioni e inquinamento idrico ha spinto decine di migliaia di persone a risalire il fiume per procurarsi da vivere. Il lago Manchar, a ovest dell’Indo, è uno dei più grandi bacini d’acqua dolce di tutta l’Asia, e ha visto un esodo di circa quarantamila pescatori da quando un pessimo progetto di drenaggio l’ha trasformato in una cloaca a cielo aperto. Il pescato è crollato dalle tremila tonnellate del 1950 a meno di cento; dal 1930 sono scomparse almeno quattordici specie indigene.
Bashiran e Sonaar hanno risalito il fiume fino a Taunsa quarant’anni fa. Hanno vissuto sulla loro barca per anni, poi hanno occupato abusivamente un terreno pubblico. Sonaar ricorda una notte in cui, inspiegabilmente, ci fu una terribile grandinata. La sua famiglia si riparò sotto la barca mentre schegge di ghiaccio trafiggevano l’acqua e rimbalzavano sul ponte. La giungla poco lontano si agitò per tutta la notte. La mattina dopo c’erano piume di uccello ovunque, e qualche ala spezzata.
L’illusione della scelta
I pescatori provenienti dal basso Indo sono spesso più vulnerabili alla schiavitù per debito. Servono soldi, anche se pochi, per cominciare una nuova vita. Servono conoscenze. La parte più insidiosa del sistema degli appalti è l’illusione di avere una scelta: hai firmato, volontariamente. All’inizio della stagione della pesca si riparte dal debito dell’anno precedente. Se subentra un nuovo appaltatore, rileva tutti i crediti del suo predecessore. In un certo senso compra i pescatori.
La figlia più giovane di Sonaar e Bashiran, Parveen, si è trasferita con il marito ancora più a monte nella speranza di prendere più pesci e più grandi. Ormai a Taunsa era difficile sbarcare il lunario con cinque figli (e un altro in arrivo). Ma per rendere possibile il trasferimento, il nuovo appaltatore ha dovuto comprare il loro debito dall’appaltatore di Kot Addu, la suddivisione amministrativa di cui fa parte lo sbarramento di Taunsa. Il paradosso è che invece più a valle, nella provincia del Sindh, il sistema degli appalti è stato abolito con una legge del parlamento provinciale nel 2011. In quell’area i pescatori sono liberi di lavorare per se stessi, ma c’è pochissima acqua, e ancora meno pesce. Perciò i pescatori continuano a trasferirsi a nord, sottomettendosi volontariamente a una forma di schiavitù. Nel 2018, con la petizione, c’era la possibilità di cambiare le cose.
Muhammad Rasheed è il genere di uomo incline alle dichiarazioni sdolcinate. “Dio è amore, e il miglior modo di amare Dio è amare le sue creature”, mi dice nell’ufficio del dipartimento locale per le attività ittiche in cima alla strada di Basti Allahwali. Piove, con furia monsonica, fuori stagione. Il cielo risplende a tratti come in uno sfarfallio cosmico. La designazione ufficiale di Rasheed è “sorvegliante delle attività ittiche”, e questo significa che deve proteggere una creatura di Dio dall’altra. Ha il compito di verificare, tra l’altro, che nessuno usi degli esplosivi per la pesca, che non siano catturati pesci troppo piccoli e che il divieto di pesca durante i mesi estivi sia rispettato. Spesso deve anche impedire che qualcuno peschi per sé, e questa è forse la parte più complicata del suo lavoro. “Il fiume appartiene a Dio e anche noi siamo uomini di Dio”, obiettano i pescatori quando sono colti sul fatto. Rasheed non sa mai bene cosa rispondere.
Quando l’alta corte ha emesso l’ordine di sospensione, si è trovato in una posizione ancora più delicata. Sbalorditi dalla decisione, i pescatori di Taunsa hanno fatto centinaia di fotocopie; qualcuno è saltato su una moto ed è corso da un villaggio all’altro distribuendoli allegramente. Ma non tutti hanno voluto sfidare il sistema. I più cinici, o forse semplicemente i più pragmatici, hanno continuato a lavorare per gli appaltatori, non volendo strappare dei legami che in seguito forse avrebbero dovuto riannodare. Ma per chi ha interrotto i rapporti con gli appaltatori, quella prima spedizione di pesca è stata simile a un pellegrinaggio, un turbinio di preghiere e petali di rosa.
Spesso deve anche impedire che qualcuno peschi per sé, e questa è forse la parte più complicata del suo lavoro
Gli appaltatori hanno interpretato l’ordine di sospensione in modo diverso, sostenendo che nessuno poteva pescare finché il caso era in discussione. I loro collaboratori hanno denunciato i pescatori indipendenti alla polizia. I pescatori si sono messi a fare altrettanto.
L’azione legale tecnicamente non era contro gli appaltatori, era contro il sistema degli appalti istituito dal governo. Ma la questione è presto degenerata in un gioco del gatto e del topo tra pescatori e appaltatori, con ciascuna parte che denunciava l’altra alle autorità, elette a ruolo di arbitro. Ogni giornata si concludeva con un mucchio di pesce nell’ufficio per le attività ittiche, confiscato e destinato a essere messo in vendita, mentre il denaro finiva nelle casse governative o, più probabilmente, nelle tasche private dei dipendenti pubblici.
Dopo qualche settimana di stallo, gli scagnozzi dell’appaltatore di Kot Addu sono andati a casa di Ghulam Sarwar e gli hanno sequestrato la barca. Sarwar è il secondo firmatario della petizione insieme a Bashiran, un vecchio con occhi che hanno lo stesso colore del fiume, offuscati dalle cataratte, e una barba tinta con l’henné. L’appaltatore ha sostenuto che Sarwar gli doveva ancora centomila rupie – meno di 700 dollari – per un debito contratto tre anni prima per costruire una nuova barca. Questa incertezza assillava i pensieri di tutti: anche se ora erano liberi di pescare, come fare con i debiti che dovevano ancora pagare?
La figlia di Sonaar e Bashiran, Parveen, era rimasta più a monte, su un rakh in mezzo al fiume con il marito e sei bambini schiamazzanti. Il rakh è un terreno acquitrinoso protetto, un ecosistema aspro e spaventoso, e la famiglia si ritrovava spesso sola nell’isola. Le ombre la terrorizzavano: erano il vento, gli spiriti o gli animali selvatici? Una sembrava essersi insinuata dentro di lei: non riusciva a scacciare quella sensazione di tensione, un peso nel petto che sembrava un sedimento. Era spossatezza post partum o una premonizione? “Torna e basta”, le ha detto il fratello, raggiante di un ottimismo che sembra aver ereditato da Sonaar. “L’appalto sta per finire!”.
Libertà è una parola grossa, ma qualcosa stava cambiando, una trasformazione graduale nell’equilibrio dei poteri. In alcuni luoghi gli appaltatori non rinunciavano alla loro presa sull’acqua, però cominciavano a pagare i pescatori più equamente. E quando li sorprendevano a rubacchiare del pesce gli facevano una rimostranza invece di dargli i soliti colpi sulla testa. Il fiume, dicevano i pescatori, stava cominciando a rigenerarsi dopo anni di sfruttamento eccessivo.
Quando Sonaar ha puntato la luce a terra ha visto delle impronte che andavano verso l’acqua. E in quel momento ha capito
Ma l’ordine di sospensione è durato solo tre mesi. A ottobre il giudice ha fatto marcia indietro, dichiarando che dopotutto il sistema degli appalti è legale. Era senza dubbio preoccupato, perché senza i proventi dell’asta annuale il dipartimento per le attività ittiche era in gravi difficoltà finanziarie. L’industria della pesca nel Punjab vale almeno 120 milioni di dollari l’anno, e almeno 40-50 arrivano dal rendimento delle acque pubbliche. La concessione degli appalti genera meno di due milioni di dollari.
Il mese dopo, l’Indo e i suoi affluenti nel Punjab sono stati di nuovo messi all’asta. Per i pescatori di Taunsa è stato un duro colpo. I tribunali sono la loro ultima risorsa. Hanno cercato di fare pressioni sui politici perché approvassero delle leggi; hanno lavorato con le ong internazionali, che ora abbandonavano la nave per la mancanza di risultati; hanno collaborato con gli attivisti più a valle che erano riusciti ad abolire il sistema nella provincia del Sindh. Hanno cercato di attirare l’interesse dei mezzi d’informazione con proteste pubbliche, in cui Sonaar è stato una star.
“Tutti i reporter dicevano: zio, parla tu. Vogliamo sentire gli slogan da te. Tante di quelle richieste! Ero travolto”, mi spiega con aria modesta. Poi, su incitazione di una ridacchiante Bashiran, comincia a snocciolarmi un campionario dei suoi grandi successi. In molti avevano sconsigliato il ricorso al tribunale: una sentenza sfavorevole li avrebbe lasciati senza sbocchi. Ma alla fine i pescatori non hanno avuto scelta. E ora anche quella finestra sembrava chiudersi.
Khadim Hussain, il terzo firmatario della petizione, ha continuato ad assistere al processo a Lahore. Cresciuto in una famiglia di contadini, vive tra i pescatori da quando ha perso la terra dei suoi antenati per l’erosione del fiume. “Credo che il giudice non abbia capito appieno la nostra situazione”, dice con tono riflessivo dietro il cespuglio della sua barba. “Il nostro avvocato faceva discorsi appassionati, mettendo in questione ogni cosa, e l’avvocata dell’altra parte si limitava a rispondere a monosillabi. Immagino che, dato che il tribunale è un’istituzione e anche l’ufficio delle attività ittiche è un’istituzione, si capissero. Erano così attenti alla questione delle entrate”.
Il colpo più crudele è diventato evidente solo più tardi. Ogni anno per stabilire il prezzo minimo di ciascun tratto del fiume si ricorre a una formula molto semplice: la media delle offerte dei tre anni precedenti più un premio del dieci per cento. Poiché quell’anno le gare sono state rinviate, i prezzi si sono drasticamente ridotti. I pesci migliori ormai erano presi, si sono giustificati gli appaltatori, non proprio convincenti, ma è un mercato tutto a favore degli acquirenti. Una volta reintrodotto il sistema degli appalti, la prossima tornata di gare sarà la più bassa di molti anni, trascinata dal calo dei prezzi della stagione attuale. I pescatori hanno finito per gonfiare i margini di profitto degli appaltatori.
Dove attraccano le barche
Sono passate le settimane. Una sera, un fremito d’inquietudine ha percorso la famiglia di Bashiran: suo figlio Niaz Ali, che era andato a raccogliere legna da ardere, non era tornato. Un gruppo si è messo alla ricerca vicino al fiume, Sonaar in testa, le torce dei cellulari accese. Si sono fermati nel luogo dove attraccano le barche piccole, e dove sorge un monumento che ringrazia il Giappone per aver finanziato la ricostruzione dell’argine dopo le inondazioni del 2010. Quando Sonaar ha puntato la luce a terra ha visto delle impronte che andavano verso l’acqua. E in quel momento ha capito.
C’è una caserma poco lontano dalla riva, e il trambusto ha attirato una guardia che è emersa dal filo spinato. “Credo che mio figlio possa essere finito in acqua”, ha spiegato Sonaar. La guardia gli ha dato una sbarra di ferro con un uncino, una specie di lungo artiglio. Quando lo ha immerso nel fiume ha trovato una bicicletta. Sonaar è scoppiato a piangere. Si è tolto il kameez (una camiciona lunga fino alle ginocchia) preparandosi a saltare in acqua, ma gli altri l’hanno trattenuto: sarebbe affogato anche lui. “Là c’è mio figlio, il mio sangue”. È riuscito a divincolarsi e si è tuffato. L’acqua era nera e gelida. Aveva la sensazione che la testa gli si stesse spaccando in mille pezzi. È risalito a galla tra gli spruzzi. Si è tuffato di nuovo. “Allah, ti sei preso mio figlio. Restituiscimelo”. Al terzo tuffo, il corpo del figlio galleggiava tra le sue braccia che si agitavano freneticamente.
La verità più sopportabile
Sei mesi dopo, Bashiran non riesce a ricordare la data esatta della morte di Niaz Ali, ma sa esattamente quanto tempo è passato. Sonaar insiste che non è stata l’acqua a uccidere il figlio, che dopotutto era nato e cresciuto sul fiume. Come sarebbe potuto affogare in acque che attraversava quotidianamente? Niaz Ali è stato ucciso da un colpo alla testa. La bicicletta che stava usando non aveva freni: mentre puntava a terra per frenare, un piede si è impigliato in un gomitolo di filo elettrico e lui ha sbandato finendo nel fiume. Ha sbattuto la testa contro una roccia, forse, o contro il manubrio, ed è morto.
Così è andata secondo Sonaar, e mentre lo racconta i suoi vicini rimangono in silenzio. Ma c’è anche una versione più segreta dell’incidente, che coinvolge l’appaltatore. Nessuno ha visto cadere Niaz Ali, né i ragazzi dei chioschi di pesce fritto in cima alla strada né le guardie della caserma; per di più la ferita alla testa era sospetta, sembrava inflitta intenzionalmente. La gente dice che forse l’appaltatore l’ha fatto uccidere per dare una lezione alla famiglia, per punire Bashiran che ha osato sfidare ufficialmente il sistema degli appalti. Ma l’ordine di sospensione è stato revocato e l’appaltatore ha riottenuto il potere. Che senso ha un gesto così drastico?
In un angolo del cortile di Sonaar e Bashiran, la scimmietta fa su e giù dall’albero lanciando sguardi torvi. È di Sonaar, che per lei nutre un affetto giudicato da tutti incomprensibile. Anch’io lo trovo assurdo: non è strano che un uomo privo di libertà tenga prigioniera un’altra creatura? Tutti gli altri pensano semplicemente che la scimmia sia antipatica. Quando si slega, tutti strillano e corrono a mettersi al riparo. Dàlla via, implora la figlia di Sonaar, oppure vendila per un animale che sia davvero utile: dei polli, per esempio, o magari una capra. Una volta un fachiro ha offerto a Sonaar una bella cifra, ma senza successo. Lui è affezionato alla scimmietta come a un figlio.
Qualcuno potrebbe considerare il rifiuto di Sonaar di vendere la scimmietta finanziariamente irresponsabile. Ma in realtà, cosa può definirsi responsabile in un sistema progettato per tenerti in trappola? Se avessi una possibilità, potresti darti da fare, risparmiare e lentamente tirarti fuori dai debiti, ma quando le regole sono così distorte, anche le tue scelte cambiano. Forse è per questo che Sonaar preferisce una certa versione della morte del figlio: dopotutto non ha senso dare voce a sospetti quando è improbabile che qualcuno sarà chiamato a rispondere. O forse crede davvero che l’appaltatore non abbia nulla a che fare con l’incidente. Pensarla diversamente significherebbe che il figlio ha pagato con la vita per questa lotta, e come si potrebbe convivere con questo peso? Come continuare a trattare con l’appaltatore, a consegnargli tutto il pescato giornaliero, ad accettare docilmente le razioni settimanali, sospettando che abbia assassinato tuo figlio?
Quando Niaz Ali è morto, la figlia più piccola di Sonaar e Bashiran, Parveen, viveva ancora a monte del fiume. Aveva parlato con il fratello tre giorni prima, e lui le aveva ripetuto ancora una volta di tornare a casa. Quell’insistenza ora acquistava un nuovo significato: erano le ultime parole che le aveva detto. La ragazza ha pianto a lungo, sola nella natura selvaggia, a lutto. Sonaar è andato dall’appaltatore e si è inginocchiato davanti a lui. Poteva valutare l’opzione di rilevare ancora una volta il debito di sua figlia per consentirle di tornare a casa e permettere alla sua famiglia colpita dal dolore di piangere insieme?
Qualche mese prima, aveva impugnato una copia consumata dell’ordine di sospensione, beffandosi degli uomini dell’appaltatore. E questi, prima di cedere, gliel’ha ricordato. Ora Parveen è appollaiata sul charpoy accanto a Bashiran e alla vedova di Niaz Ali, con i bambini intorno. Il debito in questione, trasferito da un appaltatore all’altro, ammonta a 130mila rupie, meno di mille dollari. “Avrei pianto fino a morire in quella giungla”, dice spalancando gli occhi. “Almeno ora i miei genitori mi consolano. E io consolo loro”.
“Non era tenuto a farlo”, spiega sommessamente Sonaar riferendosi all’appaltatore, con la coscienza di un uomo che ha imparato a non aspettarsi niente. “Oggi come oggi, nessuno ti concede neppure cinque rupie. Gli sono riconoscente. Davvero”. Circolano tante di quelle storie sull’appaltatore di Kot Addu che è diventato “L’appaltatore”, uno spettro di avidità, ferocia ed eccessi. Ma a pensarci bene, il suo potere è precario, dipende da una decisione presa molto tempo prima da funzionari statali per ragioni che mezzo secolo dopo nessuno sa spiegare e difendere fino in fondo. Questo è il problema in Pakistan, e forse in tutto il mondo: è di gran lunga più difficile disfare le cose che farle. L’appaltatore sente scricchiolare sotto i piedi l’edificio del controllo? Decido di fargli visita.
Muhammad Khalid tiene banco nella sua dera di fronte all’ufficio per le attività ittiche, su una strada fangosa poco lontano da dove vivono Sonaar e Bashiran. Una dera è una cosa curiosa, né casa né ufficio, anche se a volte può essere entrambi. Più semplicemente, è un luogo dove gli uomini possono ritrovarsi e passare il tempo.
La dera di Khalid è una struttura di cemento bassa e tozza con un cortile pieno di piccioni dondolanti. Alle pareti sono appesi manifesti elettorati accartocciati, vestigia dell’anno precedente: qui si sono tenuti anche incontri politici. Nel cortile ci sono pesi e bilance arrugginite, mucchi di polistirolo; a mezzogiorno qui si pesa e confeziona il pescato, si valuta il lavoro di ogni pescatore e si aggiorna il suo debito nel grosso registro contabile.
Khalid, un uomo grosso simile a una patata, è seduto a gambe incrociate su un charpoy, circondato da una cerchia perennemente pronta ad annuire. Accanto a lui ci sono un portachiavi per l’auto e un calcolatore; il suo telefono è così vecchio che probabilmente ci si potrebbe giocare a Snake. È il suo tredicesimo anno da appaltatore, e pensa che forse dovrebbe essere l’ultimo. A causa dell’ordine di sospensione, la pesca è cominciata più tardi del previsto e i mesi migliori sono andati persi, un brutto colpo sul piano economico. Già così, sembra che ogni anno ci siano meno pesci. Forse è arrivato il momento di dedicarsi ad altre imprese.
Mi aggrappo a questa corda e tiro. Qual è la logica del sistema degli appalti? Perché i pescatori non possono lavorare in proprio e pagare, poniamo, una tariffa annua al governo per il diritto di pesca? Khalid scuote la testa. Non è solo questione di entrate: “Il governo non può prendersi cura del fiume. Non ci sono abbastanza risorse. È qui che entriamo in gioco noi, noi siamo i custodi del fiume”.
“Ma più a valle, nel Sindh, il sistema degli appalti non c’è”, obietto. Si sentono dei passi al cancello. Khalid lancia un’occhiata all’ingresso: “Ah, guarda. Ecco un pescatore”. Mi giro con riluttanza. È Sonaar. Ci salutiamo come sconosciuti: un cenno del capo, e un sorriso distratto da parte mia. È venuto a chiedere un anticipo all’appaltatore: uno dei suoi nipoti è malato e ha bisogno di medicine. Sonaar ha una postura impeccabile, è dritto come un fuso, ma gli abiti gli pendono addosso e lo fanno sembrare gobbo. Ma forse è anche meglio: dà l’impressione di essere ossequioso.
Khalid fa un sorrisetto: “Sonaar è del Sindh. Potrà spiegarle come vanno le cose”. Mi sembra inutilmente crudele, e così cambio argomento: “Mi dica, perché tanti pescatori si trovano impantanati nei debiti con il sistema degli appalti?”. Khalid sembra contento della domanda. “Guardi”, mi dice con aria cameratesca. “Il modo di pensare di questi pescatori non è come il mio o il suo”. Scavalla le gambe stendendole sul charpoy. “Noi guardiamo quant’è largo il letto e stendiamo le gambe secondo la misura”. Piegando la testa verso Sonaar, fa il gesto di allungare le gambe ancora di più. “Loro vogliono solo mangiare. Sanno che qualcun altro pagherà il conto”. Non riesco a rivolgere lo sguardo verso Sonaar. Prima, un ragazzino proveniente dalla moschea è venuto a chiedere timidamente, con le dita in bocca, se avanzavano dei pesci. No, non ce n’erano, ma poteva tornare il giorno dopo, ha risposto Khalid. Distribuisce spesso del pesce a fine giornata, un atto di carità che, come spesso accade, è una forma di assoluzione e allo stesso tempo di supplica. Qual è il suo pesce preferito da mangiare? I collaboratori di Khalid offrono dei suggerimenti – rohu, jhalli, il gulfam – poi rimangono in silenzio aspettando la risposta. Lui riflette. “Mangio i pesci più piccoli”, dice con tono modesto, un ritratto di ascetismo. “Wah, saeen!”, esclamano con aria ammirata gli assistenti. “Così posso vendere i più grossi”, aggiunge. Il ritratto si dissolve e poi si ricompone.
Eccoci qua, prigionieri di una farsa. Sonaar è rimasto in piedi in silenzio. Io sono seduta e fingo di non conoscerlo. L’appaltatore continua a raccontare le sue pene, il fantasma di Burton sembra agitarsi dentro di lui. Per qualche mese gli sceneggiatori sono cambiati. Ora le vecchie maschere sono di nuovo al loro posto. È così che si manifesta il potere: tutti ripetono fedelmente le loro battute. ◆ gc
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Questo articolo è uscito sul numero 1434 di Internazionale, a pagina 54. Compra questo numero | Abbonati