Dall’inizio della guerra gli abitanti della Striscia di Gaza vivono con la consapevolezza che in qualunque momento i loro familiari e loro stessi potrebbero essere uccisi dalle bombe israeliane o morire dissanguati sotto le macerie. Le conversazioni telefoniche con queste persone somigliano all’addio a un condannato a morte. Ogni giorno parenti e amici fuori dalla Striscia reprimono il pensiero di ricevere la terribile notizia della morte dei propri cari: anziani e giovani, donne e uomini, tutti insieme.

“La cancellazione di un’intera famiglia dal registro anagrafico”, come la definiscono i palestinesi, non è semplicemente una paura, ma una constatazione agghiacciante basata sulla realtà. Israele bombarda quotidianamente decine di obiettivi: persone, edifici con i residenti dentro, tunnel o mercati. Lo spazio in cui sta comprimendo 2,3 milioni di abitanti diminuisce sempre di più. Anche le zone dichiarate “sicure” dall’esercito sono bombardate.

Si deve considerare che i figli sposati di solito vivono con le famiglie in palazzine costruite con i risparmi, dove i genitori anziani e i fratelli e le sorelle non sposati abitano al piano terra. È naturale che si resti uniti quando scoppia la guerra, nella propria casa o in un ricovero pubblico per gli sfollati. Ed è naturale che i più fortunati vadano nelle case dei parenti dopo che il loro quartiere è stato bombardato.

Così, quando cade una bomba, è logico che tra i tanti morti ci siano persone con gli stessi cognomi, imparentate per sangue o per matrimonio. E dato che il governo e l’esercito israeliani si preparano a molti altri mesi di guerra, il numero di famiglie spazzate via è destinato ad aumentare. “All’inizio paragonavamo la guerra alla nakba”, dice la sociologa palestinese Honaida Ghanim riferendosi alla “catastrofe”, la cacciata dei palestinesi dalle loro terre nel 1948, “ma ci siamo resi conto che la portata dei massacri e la cancellazione di intere famiglie vanno oltre quello che abbiamo vissuto all’epoca”.

L’espulsione, la distruzione e la perdita della terra all’epoca della fondazione di Israele sono un processo centrale nella storia del popolo palestinese, ma secondo Ghanim “il danno oggi è al cuore della stessa esistenza palestinese. L’esilio era tollerabile in una certa misura perché si mantenevano la struttura del villaggio e quella delle famiglie allargate. Il meccanismo sociale interno continuava a funzionare. Per questo c’è bisogno di persone vive. Anche nei massacri del 1948 furono uccise intere famiglie, ma ora il numero è di gran lunga maggiore. Il loro annientamento lascia un buco nero. Nessuna lingua può descrivere quello che succede lì”.

La fine di Shafiqa

Il 19 novembre, quando il numero di morti registrati dal ministero della sanità controllato da Hamas era di 11.078 persone, si stimava che fossero 1.330 le famiglie che avevano avuto varie vittime. Quel giorno si è aggiunta Shafiqa Abu Skheilleh, 83 anni (conoscevo Shafiqa e adoravo ascoltare i suoi ricordi). È morta insieme ai suoi bis­nipoti: a Dunya, moglie del suo figlio maggiore; a Maram, moglie di uno dei suoi nipoti; e ad altri parenti delle due donne e i loro figli. La figlia più giovane di Shafiqa, Salwa, non sa quanti parenti fossero nell’edificio del campo profughi di Jabaliya, nel nord della città di Gaza, che è crollato su di loro. Salwa non ne conosceva molti, perché da quarant’anni vive a Ramallah, dove ha studiato all’università di Birzeit. Dal 1991 Israele proibisce la libera circolazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, e l’ultimo permesso ottenuto da Salwa per visitare la famiglia risale al 2000. Nel 2013 madre e figlia si sono abbracciate per l’ultima volta, quando a Shafiqa è stato concesso di andare a Ramallah per delle cure mediche. Da allora si sono viste solo in videochiamata.

Lo shock è evidente negli occhi senza lacrime di Salwa. “Non riesco a realizzare che mamma se n’è andata, che questa è stata la sua fine”, dice nel tono distante e pragmatico con cui racconta gli ultimi giorni di Shafiqa, che cinque mesi prima della guerra aveva avuto un ictus e non riusciva più a parlare o muoversi. Due nipoti erano sempre a casa sua e una fisioterapista andava da lei due volte al giorno.

Quando è scoppiata la guerra, i figli di Shafiqa l’hanno trasferita a Beit Lahia, dove vivevano loro. Poi l’esercito israeliano ha ordinato a tutti gli abitanti del nord della Striscia di andare verso sud. Molti hanno scelto di restare, perché non credevano che la “zona sicura” sarebbe stata effettivamente sicura o perché avevano difficoltà a spostarsi. Questo è stato il caso della famiglia Abu Skheilleh, che si è trasferita da alcuni parenti nel campo profughi di Jabaliya: la maggior parte dei ragazzi e degli uomini in una casa, le donne, i bambini e alcuni uomini in un’altra.

I frequenti attacchi aerei spaventavano Shafiqa. Durante la notte stringeva il braccio della nipote Sumaya, che dormiva accanto a lei. Sumaya si è salvata, ma ha gravi ustioni sul viso e fratture alla colonna vertebrale e alle gambe. Si trova all’ospedale europeo di Khan Yunis nel sud di Gaza, “intorno al quale ci sono continui spari ed esplosioni”, dice Salwa. Mancano anche letti, medici e farmaci. “Un’amica andava a trovare mia madre ogni volta che poteva”, racconta Salwa. “Quando è arrivata la mattina dopo il bombardamento è rimasta sconvolta nel vedere un cumulo di macerie. I vicini sono riusciti a salvare Sumaya e a recuperare cinque corpi: mia madre, Dunya e suo fratello Talal, Maram e la sua figlia piccola Rama. Sono stati sepolti subito. Gli altri corpi sono stati estratti dalle macerie successivamente”.

Salwa ricorda che la madre, rimasta vedova a 27 anni, aveva cominciato a ricamare per mantenere i figli e mandarli all’università. “Alla fine degli anni novanta, quando i miei figli erano piccoli e mia madre ebbe il permesso di venirci a trovare, le chiesi di restare con noi e lei rifiutò. Amava Gaza, la casa di Jabaliya, la vita nella grande famiglia che era lì, i legami affettivi con tutti i parenti e i vicini”.

Nel suo libro del 2015 “La religio-politicizzazione del lutto nella società palestinese: genere, religione e nazionalità”, che tratta di famiglie palestinesi uccise dalle forze di sicurezza israeliane, Maram Massarwa, ricercatrice e docente dell’Al Qassemi college e dell’università di Tel Aviv, scrive: “L’islam considera un obbligo religioso il sostegno sociale e comunitario nei momenti di lutto, come la partecipazione ai funerali e il conforto”. Soprattutto quando si tratta di una morte violenta nel contesto dell’occupazione, “questi rituali hanno un ruolo nel fornire supporto e nell’esprimere una solidarietà sociale ed emotiva. Contribuiscono alla stabilità e a un senso di sicurezza attraverso la rappresentazione simbolica della perdita”.

Ma oggi, quando ogni giorno sono uccise tante persone, quando dieci chilometri diventano una distanza troppo grande a causa dei bombardamenti e le cattive notizie arrivano a volte solo dopo giorni, i vivi non possono dire addio ai morti. Di fronte alla morte di massa quotidiana gli abitanti di Gaza “non riescono a sperimentare i processi umani universali della perdita e del lutto”, dichiara Massarwa a Haaretz. “Non passano attraverso l’elaborazione del lutto né personalmente né collettivamente. Questo trauma collettivo, ripetuto di continuo, non permette di cominciare a piangere per qualcuno che già si annuncia un’altra morte. Non appena si comincia ad accettarla, ne arriva un’altra. Si crea un’inflazione di perdite e di lutti. Questa realtà è emotivamente estenuante”. Massarwa concorda con l’affermazione di un abitante della città di Gaza, secondo il quale le persone sono diventate insensibili alla morte che le circonda, e alla loro stessa morte.

Modalità sopravvivenza

Come Ghanim, anche Massarwa ritiene che la portata delle uccisioni a Gaza costituisca “una situazione inedita per i palestinesi. Nonostante tutte le perdite che la società palestinese ha vissuto per generazioni, il numero di vittime oggi è inconcepibile sia numericamente sia in termini del trauma della morte”. La ricercatrice osserva che “il sostegno sociale e familiare del passato – materiale, emotivo o simbolico – oggi è quasi inesistente. Le persone sono in una modalità di sopravvivenza, accompagnate da un costante terrore esistenziale. Non hanno da mangiare, non dormono, non hanno coperte né acqua potabile. Questa esperienza le lascia sole dentro il trauma”.

Anche Rafiq (uno pseudonimo) vive a Ramallah. Fa parte di una famiglia cristiana che vive nella città di Gaza da cinquecento anni. Tredici persone della sua famiglia allargata sono state uccise il 19 ottobre, quando una bomba ha colpito il complesso della chiesa greco-ortodossa di San Porfirio, dove avevano trovato riparo cristiani e musulmani sfollati. Rafiq non conosceva i nipoti che sono morti. Sente nelle sue ossa il dolore dei loro padri sopravvissuti. La vecchia casa di famiglia si trova nel quartiere di Zeitoun, che era il cuore della città. “Tutte le chiese di Gaza sono a Zeitoun”, racconta Rafiq. “Se non sono già state distrutte, lo saranno presto. Mi sento un uomo senza storia. Conoscevo ogni angolo e albero di Gaza. Ora non è rimasto niente: né luoghi né persone”.

Ferite emotive

Il 27 dicembre, quando il ministero della sanità di Gaza ha dichiarato che il bilancio delle vittime nella Striscia aveva raggiunto i 21.110 morti (senza contare le migliaia di persone disperse), le famiglie che avevano avuto varie vittime erano 1.779. Una di queste è la famiglia Al Mughrabi. Il 22 dicembre un bombardamento israeliano su un edificio nella città di Gaza ha ucciso Issam al Mughrabi, 56 anni, dipendente del programma di sviluppo dell’Onu, sua moglie Lamia, 53 anni, le loro due figlie, i due figli e una nuora. Sono stati uccisi anche tra cinquanta e sessanta componenti della famiglia allargata.

Decine di persone appartenenti alle stesse famiglie sono state uccise anche nel campo profughi di Maghazi, nel centro della Striscia. Nella notte tra il 24 e il 25 dicembre sono state colpite quattro case. Senza lampioni, con il buio trafitto solo dalle torce dei cellulari, i vicini e i volontari delle squadre di soccorso hanno provato a districare i vivi dai mucchi di cemento. Le vittime appartenevano alle famiglie Ghaban, Abu Rahma, Al Nawasra, Abu Hamida, Masem, Qandil e Abu Awwad. In ogni casa c’erano anche parenti sfollati dal nord (in seguito l’esercito ha ammesso che il bombardamento è stato commesso per errore, e ha dichiarato di essere dispiaciuto). I feriti sono stati portati all’ospedale Al Aqsa di Deir al Balah. Anche le strade erano state bombardate e questo ha ostacolato le ambulanze. I video mostrano le solite immagini: cadaveri avvolti in teli bianchi stesi uno accanto all’altro nel piazzale davanti all’ospedale.

Abdel Latif al Haj, un chirurgo che è anche direttore del ministero della sanità di Gaza, recentemente è andato a lavorare all’ospedale di Deir al Balah. Fino a un mese fa era all’ospedale Nasser a Khan Yunis. Era lì il 21 novembre in un turno senza fine, quando un aereo israeliano ha sganciato una bomba sulla sua casa nel campo di Nuseirat, piena di parenti sfollati dal nord della Striscia. Il bombardamento ha ucciso il suo figlio maggiore, Majd, un ingegnere informatico di 32 anni, la moglie Amani e il loro neonato; sua figlia Dima, impiegata dell’Organizzazione mondiale della sanità, il marito Mohammed e il loro figlio di cinque mesi; suo figlio Omar, 17 anni; la sorella Fadwa, 52 anni, e i suoi due figli di 17 e 18 anni. Altri 34 parenti rifugiati nella casa sono stati uccisi: quattro generazioni di una famiglia delle comunità palestinesi di Kawkaba, Iraq Suwaydan e Majdal, spopolate nel 1948, sono state cancellate. La moglie di Al Haj, la figlia di 22 anni e due nipoti, un bambino di nove anni e una neonata di due settimane, che hanno perso i genitori, sono stati estratti vivi dalle macerie. Hanno subìto contusioni, fratture ed emorragie e oggi si stanno riprendendo dalle ferite al corpo in casa di altri parenti. Inutile sprecare parole sulle ferite emotive.

E questi sono i nomi dei diciassette nipoti e pronipoti morti nel bombardamento: Sari, quattro mesi; Abd al Hakim, cinque mesi; Sara, 14 mesi; Siwar, due anni; Yahya, quattro anni; Leen e Wasim, sei; Mohammed, sette; Adam, nove; Adnan, Kanan e Ismail, dieci; Liyan, 13; Lubda e Izz al Din, 14; Misk, 15; e Zayn, 16.

“La famiglia era ed è la base strategica della società palestinese, in una situazione in cui lo stato non c’è, oppure non opera e non funziona per le persone”, dice Ghanim. “Quando subisci un regime di occupazione la famiglia è un meccanismo di supporto. Ora che tante famiglie sono state annientate il supporto sociale si affievolisce. Si crea una situazione di perdita del contesto. Tutto è andato perduto: la casa, i legami sociali, le persone che costruiscono un futuro e ricordano i morti. Non c’è più nessuno a raccontare la storia dell’esilio. La Palestina esiste in uno spazio immaginato, e quando scompaiono tante persone scompare anche quello spazio”. ◆ fdl

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Haaretz.

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

Le ultime notizie
Un’uccisione a Beirut

◆ Il 2 gennaio 2024 a Beirut, in Libano, un drone attribuito a Israele ha ucciso Saleh al Arouri, un leader politico di Hamas. Israele non ha confermato né negato l’accaduto, ma un portavoce del governo ha parlato di “un attacco chirurgico contro la leadership di Hamas”.

◆Il 1 gennaio il portavoce dell’esercito israeliano Daniel Hagari ha dichiarato che le truppe si preparano a “combattimenti prolungati” nella Striscia di Gaza, che dureranno “tutto l’anno”. Hagari ha anche precisato che migliaia di soldati saranno temporaneamente ritirati dal territorio palestinese facendo riferimento alle ripercussioni della mobilitazione militare sull’economia del paese. L’epicentro delle operazioni dell’esercito è Khan Yunis, la città principale del sud della Striscia, ma tra il 1 e il 2 gennaio sono stati bombardati anche Rafah, al confine con l’Egitto, e i dintorni del campo profughi di Jabaliya, a nord. Il 2 gennaio il ministero della sanità di Hamas ha annunciato un nuovo bilancio: dal 7 ottobre le operazioni militari israeliane hanno causato 22.185 morti e 57.035 feriti nella Striscia di Gaza.

◆Il 1 gennaio l’ong israeliana Yesh Din ha annunciato che le azioni violente dei coloni israeliani contro i palestinesi in Cisgiordania hanno registrato un record nel 2023 e hanno causato almeno dieci morti. L’ufficio dell’Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha) ha denunciato 1.225 attacchi di coloni contro i palestinesi nel 2023, anno durante il quale secondo l’Autorità nazionale palestinese l’esercito e i coloni israeliani hanno ucciso almeno 317 palestinesi.

◆Una dichiarazione del ministero della difesa siriano il 30 dicembre 2023 ha accusato Israele di aver colpito una postazione militare iraniana ad Aleppo, in Siria. Tre giorni dopo sono stati presi di mira obiettivi militari vicino a Damasco.

◆Il 29 dicembre il Sudafrica si è rivolto alla Corte internazionale di giustizia accusando Israele di commettere “azioni di genocidio” nella Striscia di Gaza.

Afp, Bbc


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Questo articolo è uscito sul numero 1544 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati