Alle 9 di mattina del 9 maggio il mio amico Fathi Sabah mi ha detto che lui e 34 familiari e amici erano ancora a casa dei suoi genitori. La casa è costruita sul lato orientale della strada che collega Khan Yunis a Rafah, sul margine orientale del campo profughi di Shaboura. Sabah è un giornalista e docente di giornalismo sulla cinquantina. In una conversazione di mezz’ora su WhatsApp mi ha descritto quello che stava succedendo a Rafah e i fitti colpi di artiglieria che, come ha detto, “ci spaventano più delle bombe dal cielo”.
Sulla base del suo racconto, delle conversazioni con altri due amici con cui è stato possibile solo un breve un contatto telefonico, e delle notizie riferite dalla radio Al Ajyal, avevo buttato giù questo incipit: “Gli avvertimenti del presidente degli Stati Uniti Joe Biden a Israele contro ‘l’ingresso’ a Rafah non hanno calmato gli 1,2 milioni di palestinesi ammassati nella città del sud. Nessuno si illudeva che i carri armati sarebbero rimasti a est della città senza invaderla. Negli ultimi due giorni si sono svuotati vari quartieri, non solo quelli orientali”.
Alle 11.10, però, la figlia maggiore di Sabah – che a causa delle condizioni di salute lui è riuscito a far uscire da Gaza nel terzo mese di conflitto – mi ha mandato un messaggio in cui diceva: “Poco fa una granata ha colpito il primo piano della casa dei miei nonni. I miei genitori, due miei fratelli e altri familiari sono all’interno. Li ho chiamati e mi hanno detto che non c’erano feriti e che stavano tentando di uscire il più in fretta possibile. Poi un altro colpo ha centrato il secondo piano e ora nessuno mi risponde”.
Poco prima, alle 9.15, Sabah mi aveva rassicurato: “Siamo fuori dalla mappa”, riferendosi alle istruzioni date dall’esercito agli abitanti per lasciare il villaggio di Shuka e i quartieri orientali di Rafah. Ma aveva aggiunto: “Sappiamo che questo non ci garantisce nulla”. Era questione di poche ore, al massimo un giorno, poi anche loro avrebbero dovuto lasciare la casa, la stabilità parziale, il tetto che avevano avuto per qualche mese.
Nessuno dorme
I colpi di artiglieria non prendevano di mira solo le case nella parte orientale della città, mi ha detto Sabah. Il giorno prima l’esercito aveva bombardato una casa a cento metri dalla sua. Il palazzo del comune nel centro della città è stato colpito due volte, in due giorni diversi. Una granata ha colpito anche Tel a-Sultan, un quartiere di rifugiati nella parte occidentale di Rafah. Non c’è da stupirsi quindi se tra i familiari di Sabah nessuno era riuscito a dormire nelle ultime notti.
“Quando c’è una bomba, c’è un sibilo, o un suono acuto di sirena. Quando cadono i proiettili di artiglieria, tutta la casa trema”, mi ha spiegato Sabah. “I teli di nylon sulle finestre, che sostituiscono i vetri infranti tempo fa, crepitano. Dalle case bombardate sentiamo il rombo del cemento in frantumi. Durante il giorno si vede il fumo. Di notte è buio pesto. Chi si ricorda di quando avevamo l’elettricità?”.
Dopo la notte di bombardamenti, quando abbiamo parlato la mattina del 9 maggio, la maggior parte della famiglia stava approfittando del breve momento di calma per dormire, compresa la madre di ottant’anni. Sua moglie stava preparando qualcosa in cucina. “Cosa porterete con voi quando andrete via?”, gli ho chiesto. Lui ha risposto: “Materassi, coperte, vestiti, utensili da cucina. L’acqua, che compriamo nelle taniche una volta alla settimana, basta per altri due giorni. Per questo ci facciamo la doccia solo una volta ogni due settimane. Ci porteremo anche quel poco da mangiare che abbiamo. Stamattina non ho trovato il pane. Il forno in fondo alla strada è chiuso. I proprietari sono scappati”.
Nei giorni precedenti le persone si erano rifugiate nel campo di Shaboura, compresi alcuni amici comuni di Gaza. Ora, a mano a mano che i colpi di artiglieria si avvicinano, i nostri amici hanno cominciato a cercare una tenda e dei veicoli per fuggire più a ovest. È la quarta volta che scappano dall’inizio della guerra. Per Sabah e la sua famiglia è la terza fuga da ottobre. Nella seconda settimana di conflitto hanno abbandonato la città di Gaza per spostarsi nella casa della famiglia di sua moglie, a Khan Yunis. A dicembre, dopo che un missile ha colpito la stanza in cui i dormivano i figli, si sono spostati a Rafah, a casa di sua madre, vedova, rifugiata, nata nel villaggio di Al Bureir (dove oggi si trova il kibbutz Bror Hayil). Ogni sfollamento è la conseguenza dell’avanzata dell’esercito, e ogni avanzata comprime gli sfollati in un’area sempre più piccola della Striscia.
Nel bombardamento dell’8 maggio a Rafah sono morte diverse persone, mi ha detto Sabah. I miliziani palestinesi stavano combattendo sul confine, ha aggiunto: “Non sappiamo quanti di loro sono stati uccisi, ma le persone morte nelle case erano civili”. Mi ha mandato i nomi delle vittime che erano state identificate in ospedale: Jana al Lulu, un anno; Yazid Mohana, un anno; Ahmed Eid, dieci anni; Lana Eid, dodici; Muhammad Eid, diciannove, Rimas al Lulu, ventisette; Bilal Eid, ventisette; Mohammed al Lulu, trentacinque.
Ore di tensione
“Quando muore qualcuno, non piangiamo”, mi ha detto Sabah. “Non ci riusciamo. I nostri occhi sono asciutti, abbiamo pietre al posto delle lacrime. La morte è un sollievo per i morti. Quando è morta mia suocera, non riuscivo a piangere. Tanto era il dolore che ci circondava che neppure mia moglie riusciva a piangere per sua madre, che era già in dialisi. Ci sono centinaia di pazienti con malattie renali che hanno bisogno di dialisi. Prima li curavano all’ospedale Yosef al Najjar, che ora è stato abbandonato su ordine dell’esercito, con tutte le sue costose attrezzature”.
E ha aggiunto: “Le persone chiedono su WhatsApp dove si può fare la dialisi. Un medico ha detto che l’ospedale Nasser a Khan Yunis riprenderà a funzionare fra tre giorni. Ma cosa faranno fino ad allora? Molti anziani muoiono per mancanza di cure o perché non riescono a sopportare le condizioni difficili”. Ora che l’esercito ha preso il controllo del valico di Rafah e l’ha chiuso, i malati e i feriti che sarebbero dovuti andare all’estero per le cure sono rimasti intrappolati nella Striscia di Gaza.
Dopo aver ricevuto il messaggio della figlia di Sabah, ho vissuto un paio d’ore di tensione finché, intorno alle 13.30, Sabah mi ha chiamato. “Quindici minuti dopo aver finito di parlare con te”, ha raccontato, “un colpo di artiglieria ha centrato il primo piano, dove vive mio fratello. In quel momento lui e la sua famiglia non c’erano. Cinque minuti dopo, c’è stato un altro colpo sullo stesso piano”. Dopo altri dieci minuti, quando tutti si stavano preparando a un nuovo esodo, un proiettile ha colpito il secondo piano, dove c’erano nove persone. Nessuno è stato ferito, ma sono rimasti tutti paralizzati dalla paura.
Quando abbiamo parlato per la seconda volta, Sabah e tre suoi familiari erano ancora dentro casa, per raccogliere tutto quello che potevano. Gli altri si sono sparpagliati verso i diversi nuovi punti di rifugio. “Noi andiamo ad Al Mawasi”, mi ha detto lui. Si tratta di una sottile striscia di spiaggia, già piena di tende “vere” e tende di fortuna. Da Muhammad Al Astal, giornalista di radio Al Ajyal, sapevo che ad Al Mawasi non era rimasto neppure un centimetro di terra libera e che, in ogni caso, le tende non si trovavano più.
Nei due giorni precedenti erano stati bombardati i piani superiori degli edifici residenziali nel centro della città. È stata colpita anche una stazione dove si riempiono le bombole di gas, generando una densa nube di fumo nero. Le persone hanno capito che dovevano scappare. Quella mattina Sabah mi aveva detto che “le strade di Rafah ora sono vuote”. Negli ultimi sei mesi e ancora una settimana fa, ha ricordato Sabah, “non si poteva camminare per quanta gente c’era, c’erano bancarelle, bambini che trascinavano contenitori d’acqua, tende sui marciapiedi. Ora sono strade fantasma”. Chi aveva piantato le tende in città le ha chiuse e se l’è portate via, insieme ai materassi e alle stuoie. Qualcuno ha riferito che nella parte est di Rafah le persone in fuga non hanno avuto il tempo di farlo e l’esercito ha incendiato le tende. Il nostro comune amico a Shaboura ha raccontato che le persone hanno cominciato ad andarsene, mentre lui e la sua famiglia erano ancora titubanti. Non hanno una tenda né i soldi per comprarla a un prezzo gonfiato.
Secondo Al Astal, gli abitanti sanno che, come a Gaza e a Khan Yunis, i colpi di artiglieria sono il preludio a un’invasione su vasta scala. In un notiziario Al Astal ha affermato che il numero di persone sfollate per la seconda, terza, e anche sesta volta, è molto più alto della stima di 80mila fornita dall’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei rifugiati palestinesi. Le persone che hanno provato a scappare in serata, ha raccontato alla radio, non sono riuscite a trovare un posto tra le migliaia di tende e molte si sono trovate per strada di notte senza sapere dove andare. C’erano bambini che piangevano per la sete e donne in lacrime per quei bambini. Non c’è nessuna istituzione o organizzazione che distribuisce acqua, non ci sono servizi igienici, ha detto Al Astal. Durante il giorno le carovane degli sfollati si trascinano lentamente nel caldo intenso. Nella strada verso le macerie di Khan Yunis non c’è un posto all’ombra per ripararsi. I carri armati israeliani hanno spianato e distrutto tutte le terre verdi e fertili che circondavano la città. Le persone fuggono in un deserto di devastazione e sabbia, ha proseguito Al Astal: “Sanno che devono fuggire dall’annientamento, dalla catastrofe. Ma fuggono verso il nulla”. E ha pronunciato la parola olocausto in arabo.
Il 9 maggio, verso le 17, mentre era a casa di sua sorella nel quartiere di Tel a-Sultan, Sabah mi ha mandato un’altra lista di 36 morti, i cui corpi erano stati recuperati dalle macerie a Rafah nelle ventiquattro ore precedenti: c’erano otto bambini, il più piccolo di otto mesi, e sei donne. ◆ fdl
Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania, e scrive per il quotidiano Haaretz.
Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.
◆ Il 10 maggio 2024 l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito che la Palestina dovrebbe entrare a far parte dell’organizzazione a pieno titolo e ha concesso alcuni diritti. Il processo di adesione richiede tuttavia un voto favorevole dei due terzi dell’assemblea e il parere positivo del Consiglio di sicurezza, dove però il 18 aprile gli Stati Uniti hanno messo il loro veto.
◆ Il 12 maggio l’Egitto ha detto di volersi associare alla causa intentata dal Sudafrica contro Israele per genocidio nei confronti dei palestinesi alla Corte internazionale di giustizia, dato l’intensificarsi dell’offensiva israeliana sulla città di Rafah.
◆ Il 13 maggio l’Onu ha fatto sapere che un suo veicolo è stato colpito a Rafah e un suo impiegato, di nazionalità indiana, è stato ucciso. È la prima vittima internazionale delle Nazioni Unite nella Striscia di Gaza.
◆ Il 14 maggio più di 450mila persone hanno lasciato Rafah per sfuggire ai bombardamenti israeliani. Afp
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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati