Giorgia Meloni, la prima donna a diventare presidente del consiglio nella storia d’Italia, è la dimostrazione vivente che una donna determinata e di talento può arrivare al vertice anche di una società conosciuta per il suo maschilismo. Eppure la recente battaglia sul nuovo consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti (Cdp), un’istituzione finanziaria dello stato italiano che investe in settori strategici dell’economia nazionale, è l’esempio che il patriarcato continua a dominare gran parte della vita pubblica del paese.
Preparandosi a nominare un nuovo consiglio d’amministrazione per la Cdp, i cui tentacoli si estendono su tutta l’economia nazionale, il governo di Meloni ha proposto una lista di candidati composta quasi esclusivamente da uomini, nonostante il regolamento interno stabilisca che le donne debbano almeno essere il 40 per cento. L’esecutivo di destra, però, aveva pronta la soluzione: ha chiesto agli azionisti della Cdp – ovvero il ministero delle finanze, che ne controlla l’82,7 per cento – di modificare il regolamento per diminuire la rappresentanza femminile. Una richiesta che ha irritato gli altri azionisti, tra cui alcune potenti fondazioni bancarie.
Quando la notizia è arrivata ai mezzi d’informazione ha scatenato le proteste dell’opposizione e delle associazioni professionali femminili, che hanno parlato di grave passo indietro per i diritti delle donne. “In Italia non basta una premier donna se il potere resta in mano agli uomini”, ha scritto su X, la senatrice di Italia viva Raffaella Paita, criticando le “scelte medievali” del governo.
In una lettera aperta ottanta professioniste con esperienza nei consigli d’amministrazione hanno definito il piano del governo “un segnale negativo (…) riguardo alle pari opportunità e alla tutela del genere meno rappresentato”.
Le firmatarie hanno aggiunto che “la motivazione alla base della riduzione delle quote di genere non è e non può essere la mancanza di possibili candidate”.
Negli ultimi anni l’Italia ha ottenuto risultati notevoli nella diversificazione dei consigli d’amministrazione delle grandi istituzioni, anche grazie a una legge del 2011 che ha imposto alle aziende quotate in borsa e a quelle statali un graduale aumento della rappresentanza femminile.
Le “quote rosa”, come sono chiamate in Italia, sono state fissate inizialmente al 20 per cento e in seguito al 33 per cento. Nel 2020 la legge è stata modificata e prorogata per altri nove anni, portando le quote al 40 per cento.
Secondo uno studio sulla diversità di genere nei consigli di amministrazione, della società di reclutamento Egon Zehnder, l’Italia – insieme a Norvegia, Francia e Nuova Zelanda – è uno dei paesi dove le donne sono più del 40 per cento nei consigli d’amministrazione delle più grandi aziende del paese. Quando la legge è stata introdotta la percentuale era del 7 per cento.
Tuttavia dove la quota di donne non è imposta per legge, la vita pubblica italiana resta dominata dagli uomini. Le amministratrici delegate (o le direttrici finanziarie) nelle grandi aziende sono poche, e nessuno dei più importanti quotidiani del paese è mai stato guidato da una donna. I premi più prestigiosi continuano a essere assegnati da giurie composte quasi solo da uomini o al massimo con una o due donne. I dibattiti completamente al maschile sono molto comuni, anche se spesso sono moderati da donne del mondo della televisione. In questo contesto il tentativo di ridurre la presenza femminile nel consiglio d’amministrazione della Cdp, attraverso cui il governo esercita la propria influenza sulle grandi aziende del paese, ha alimentato il timore che il governo Meloni stia tornando ai tradizionali modelli patriarcali italiani.
Trovato un compromesso
“Abbiamo fatto progressi, ma non possiamo mai darli per scontati: c’è sempre il rischio di tornare indietro”, spiega Paola Profeta, responsabile per la diversità, l’inclusione e la sostenibilità dell’università Bocconi di Milano. “Pensavamo che con le quote la gente si sarebbe abituata e nessuno avrebbe cercato di tornare alla situazione precedente”, sottolinea Profeta, “ma non è così”. Alla fine la vicenda della Cdp si è risolta con un compromesso. Il consiglio di amministrazione è stato allargato da nove a undici posti, permettendo alla coalizione di destra di assegnare ai propri candidati maschi le posizioni promesse pur rispettando la quota di donne del 40 per cento. Ma l’episodio ha lasciato un sapore amaro, dimostrando che il sistema delle quote è ancora necessario. “Nessuno ama le quote”, spiega Azzurra Rinaldi, direttrice della School of gender economics, dell’università Unitelma Sapienza di Roma. “Le donne vorrebbero essere assunte per le loro qualità professionali, ma tutti i dati indicano che senza le quote il processo di cambiamento è più lungo. È così che il sistema patriarcale protegge se stesso”. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1579 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati