Di rado gli uomini dimostrano interesse per donne imponenti e armate, ma a questa bacerebbero i piedi. Se solo ci arrivassero.

Nel centro di Cotonou, la città più grande del Benin, c’è una gigante di bronzo che, piedistallo compreso, è alta 33 metri e pesa 150 tonnellate. Nella mano destra stringe una spada e nella sinistra un fucile. Indossa una tunica e pantaloni al ginocchio, ha i capelli corti e lo sguardo rivolto all’orizzonte. Su una targa si legge: “Simbolo di amore e devozione al nostro paese, queste amazzoni sono note per aver difeso la patria con lo stesso coraggio degli uomini”.

Quattro giovani beninesi mi chiedono di fotografarli davanti alla guerriera. “Guarda quanto siamo piccoli!”, commenta uno di loro.

È stata Martine de Souza a consigliarmi di cominciare da questo monumento il mio viaggio sulle tracce dell’unico esercito femminile che sia mai esistito in Africa. “Poi venga da me che le mostro il resto”, mi ha detto al telefono.

Il Benin è un piccolo stato sul golfo di Guinea che, a differenza del suo grande vicino, la Nigeria, raramente fa notizia. Finché un film hollywoodiano non l’ha improvvisamente portato alla ribalta. Nel 2022 è uscito al cinema The woman king della regista Gina Prince-Bythewood, che parla di un corpo militare d’élite femminile nell’ottocento, nel regno del Dahomey, che sorgeva nell’attuale Benin. Gli uomini, di qualsiasi colore, hanno tutti ruoli secondari. Le protagoniste sono le soldate nere, che liberano gli schiavi, combattono per la patria e, armate di lance e machete, sconfiggono i nemici in scene di battaglia grandiose e sanguinose.

Per molto tempo a Hollywood si è pensato che una storia senza eroi bianchi o maschi fosse la garanzia di un fiasco. E invece The woman king ha incassato quasi cento milioni di dollari in tutto il mondo, rendendo famoso il Benin per aver trovato una nuova icona della cultura pop globale: la guerriera africana.

Da allora le “amazzoni” sono diventate delle attrazioni turistiche in Benin. Nella lingua dei fon, il gruppo etnico più numeroso del paese, sono chiamate agojie. Martine de Souza, storica e guida turistica, le conosce meglio di chiunque altro, anche perché senza le loro campagne militari lei non sarebbe mai nata. “La realtà non è un film”, mi ha detto al telefono.

Il monumento alle amazzoni di Cotonou, 7 marzo 2024. La statua è stata inaugurata nel 2022 (Achille Abboud, Imago/Alamy)

Due giorni dopo mi ha portato in quella che è stata la capitale delle agojie. Ad Abomey, 140 chilometri a nord di Cotonou, non c’è traccia del caos di una grande città: è un piccolo centro con un clima afoso e il cielo lattiginoso, immerso nei toni rossi e ocra della terra, delle case di argilla e dei tetti arrugginiti. Mentre saluta i passanti, de Souza, una donna di 60 anni, robusta e con le treccine strette sul capo, spiega che le pitture e le decorazioni presenti sui muri di molte case raffigurano leoni, cinghiali, serpenti e figure dell’aldilà. Il Benin è considerato la patria del vudù – che qui è chiamato vodun – una religione con un vasto pantheon di spiriti e divinità. Abomey un tempo era la capitale del regno di Dahomey e ancora oggi ne ospita la corte, anche se l’attuale sovrano non ha più nulla su cui regnare. “Volendo posso organizzare un’udienza”, propone de Souza. “Ma bisogna avere pazienza: il re ci prova gusto a farti aspettare”. Mi fa anche un’altra proposta: incontrare un’agojie.

Ma non sono morte da un pezzo?

“Sì certo. Incontreremo una loro reincarnazione”.

Lentamente in Europa sta prendendo piede la consapevolezza che l’Africa precoloniale non fosse solo savana, giungle e “tribù”, ma un territorio con i suoi imperi, le sue città-stato e le sue reti commerciali. Tra gli stati più potenti del continente c’era proprio il regno del Dahomey, fondato all’inizio del seicento. I visitatori europei dell’epoca lo chiamavano la “Sparta nera” per via delle frequenti campagne militari e nei resoconti che mandavano a casa riferivano cose incredibili: donne che facevano le ministre, erano ufficiali o soldate dell’esercito, che governavano e combattevano al fianco degli uomini. Varie posizioni di potere erano occupate da due persone, un uomo e una donna, mentre l’unità d’élite delle agojie aveva un comando esclusivamente femminile.

Nell’autunno del 1861 il missionario italiano Francesco Borghero assistette a un’esercitazione: alcune migliaia di guerriere armate si arrampicavano scalze su barricate di arbusti spinosi alte diversi metri e simulavano combattimenti corpo a corpo. Al contrario di altri viaggiatori bianchi che consideravano questa confusione di ruoli di genere una dimostrazione dell’arretratezza degli africani, Borghero ne fu impressionato. Fu colpito dalla comandante delle agojie, “snella ma ben fatta, orgogliosa ma non affettata”, che dopo l’esercitazione gli spiegò che le sue guerriere valevano quanto un qualsiasi esercito europeo. L’affermazione, però, si sarebbe rivelata errata trent’anni dopo: a nulla valse la resistenza del regno contro le truppe coloniali francesi, nonostante le agojie, secondo le descrizioni degli ufficiali nemici, s’impegnassero continuamente in combattimenti corpo a corpo, decapitando molti avversari.

Di circa 1.500 combattenti la maggior parte morì in battaglia e il regno indipendente, dove le donne ricoprivano la metà delle posizioni ai vertici, cadde con loro. Alle poche sopravvissute fu consentito di sfilare in parata solo in occasione della festa nazionale francese, il 14 luglio. Come corpo di ballo.

La Porta del non ritorno è decorata con dei fregi di donne e uomini legati e imbavagliati. ‘A questo punto, tutti si commuovono’

Doppia vita

La persona con cui Martine de Souza ha preso appuntamento si chiama Alewammon, la “Furiosa”, un’agojie il cui spirito rivive nel corpo di questa pronipote.

“Inchinati!”, mi sussurra de Souza e io la imito, mettendomi in ginocchio davanti alla discendente di una famiglia reale, con il viso rotondo, seduta su una sedia di legno in una spoglia sala da ricevimento. Indossa un abito ricoperto di paillette e grossi bracciali di metallo sugli avambracci. Sulla fronte porta una fascia blu che le dà un’aria un po’ da hippy, decisamente non quello che mi ero immaginata.

“Sono la quinta reincarnazione”, spiega, senza trattenere uno sbadiglio: in questo periodo ad Abomey si tengono delle cerimonie per le festività vodun ed è proprio lei a guidarle fino a tarda notte.

Le chiedo cosa fa nella vita di tutti i giorni un’agojie reincarnata. “Mi sveglio verso le cinque per pregare gli antenati”, risponde Alewammon, che prima aveva un altro nome. “Intercedo per chi ha problemi e preoccupazioni. A volte, Alewammon mi appare in sogno e mi consiglia”.

E per il resto? “Per il resto faccio la vita di una donna normale. Commercio pesce”. Oggi anche la famiglia reale deve guadagnarsi da vivere.

Ha 52 anni e due figli. Per nulla al mondo si metterebbe a tirare lance o a prorompere in grida di battaglia scavalcando recinzioni coperte di spine. Però ammira le agojie e conosce alla perfezione i loro canti guerrieri. La Alewammon originale, racconta la sua discendente, era il terrore dei nemici in battaglia e il re la ricompensava regalandole degli schiavi. “Anche i loro discendenti vivono qui”, dice indicando le case della tenuta di famiglia.

Sono in buoni rapporti? Non c’è rancore? Fa un’espressione perplessa. “E perché mai? Apparteniamo tutti alla stessa famiglia, siamo legati da matrimoni”. Poi ci saluta per andare a prepararsi per le prossime cerimonie.

“Le agojie”, racconta Martine de Souza quando la “Furiosa” si allontana, “partecipavano alla tratta degli schiavi dando la caccia alle persone. Ed erano anche piuttosto abili”. È la prima volta che la sento esprimere una critica su quelle guerriere nei cui canti si esibisce con lo stesso entusiasmo della reincarnazione di Alewammon. “Gliel’avevo detto: la realtà non è un film”, puntualizza la storica.

De Souza è un cognome che in Benin evoca potere, benessere e il capitolo più buio della storia del paese. Verso la fine del settecento, Francisco Félix de Souza, un mercante discendente dai colonizzatori portoghesi, si trasferì dal Brasile al regno del Dahomey, ovvero alla fonte del più redditizio di tutti i suoi affari: la tratta di esseri umani. Insieme al re del Dahomey, de Souza riuscì ad aumentare il commercio degli schiavi destinati alle piantagioni statunitensi e brasiliane, rimettendo in piedi l’economia in crisi del regno. E lo fece anche grazie alle agojie. All’epoca, quello che era stato un corpo di guardie di palazzo si era trasformato in un temuto esercito di ottomila guerriere, tra cui volontarie locali, ragazze che andavano a combattere per non doversi sposare, donne originarie di popoli assoggettati che, arruolandosi, riottenevano la libertà.

Francisco de Souza ha avuto una grande quantità di figli non riconosciuti, spesso violentando le schiave. Il clan dei de Souza è diventato enorme. “Anche mio padre ne fa parte”, racconta Martine de Souza. “E di conseguenza anch’io”.

Il rapporto tra i discendenti degli schiavi e quelli dei loro cacciatori non è pacifico come l’ha descritto la reincarnazione di Alewammon. Nei racconti e nelle canzoni popolari, il ricordo delle razzie e delle deportazioni è passato di generazione in generazione. Ci sono studi che dimostrano come nelle società africane la coesione sociale risenta ancora oggi dell’esperienza della schiavitù.

I de Souza mantengono una forte influenza politica in Benin. “La maggior parte dei miei parenti si guarda bene dal toccare l’argomento della schiavitù”, osserva Martine de Souza. Lei invece ne parla, anche solo per ragioni professionali. I turisti a cui mostra il paese sono di solito afroamericani e afrobrasiliani discendenti di schiavi che vengono in Africa occidentale sulle tracce dei loro antenati. De Souza li porta ad Abomey e da lì lungo la costa fino a Ouidah: è la route de l’esclave (la strada degli schiavi) che percorrevano anche i deportati. I tour finiscono sulla spiaggia davanti a un imponente arco attraverso il quale si vede l’oceano Atlantico. È la Porta del non ritorno, in ricordo delle persone deportate nelle Americhe. Si stima che da lì sia passato un milione dei circa dodici milioni di vittime della tratta atlantica.

La Porta del non ritorno è decorata con dei fregi di donne e uomini legati e imbavagliati. “Se non l’hanno già fatto prima, arrivati a questo punto tutti si commuovono”, dice Martine de Souza. Che siano manager afroamericane dell’Alabama o insegnanti afrobrasiliani di Bahia, tutti fissano attoniti le onde dell’Atlantico. “C’è chi piange, una volta qualcuno mi ha perfino gridato contro: ‘How could you do that to us?’. Come avete potuto farci una cosa simile?”.

Lontano dai turisti

In Benin il tema delle complicità nello spopolamento dell’Africa occidentale è una questione delicata ma non del tutto nuova: i paesi africani ci fanno i conti da tempo, sicuramente più di quello che i paesi europei hanno dedicato a riflettere sul loro ruolo nella tratta atlantica degli schiavi, che è alla base della loro ricchezza. Alla fine degli anni novanta, l’allora presidente del Benin, Mathieu Kérékou, e quello ghaneano, Jerry Rawlings, chiesero perdono ai discendenti degli schiavi d’America per la complicità dei loro antenati nella tratta. Da decenni gli abitanti di Ouidah organizzano una volta all’anno la “marcia del pentimento”, di cui de Souza è una degli organizzatori.

E le agojie? Sono eroine nazionali? Oppure sono complici di un crimine epocale? “Perché non lo chiediamo a mia madre?”, mi propone Martine.

Eulalie Dagba de Souza, 77 anni, vive con la figlia, le nipoti, i generi e i pronipoti in un tranquillo quartiere residenziale a Ouidah, lontano dalle attrazioni turistiche. A un primo sguardo sembra una veterana agojie, con le braccia forti e i capelli corti. “Erano donne cattive”, dice setacciando del mangime per polli. È seduta all’ombra nel cortile e senza troppe parole dirige il lavoro dei più giovani.

Insieme al marito, Eulalie Dagba ha cresciuto cinque figli. Tutta la città conosce le sue doti sartoriali e compra il suo olio di palma. Però lei non si sente davvero a casa. Alla fine dell’ottocento, sua nonna era stata deportata qui dall’attuale Nigeria: un manipolo di agojie la vendette a una famiglia di mercanti bianchi di Ouidah come schiava. All’epoca, la tratta degli schiavi era stata vietata negli Stati Uniti e in Europa, ma in Africa era ancora possibile fare affari vendendo prigionieri a ricche famiglie locali.

“Quelle donne tagliavano la gola a chi tentava di scappare”, dice Eulalie Dagba. “Non capisco perché oggi siano così incensate”. Sul suo viso non c’è più traccia di stanchezza, il suo respiro si fa affannoso. La figlia le mette una mano sul braccio per calmarla.

Nel pomeriggio, con Martine de Souza andiamo di nuovo alla Porta del non ritorno.

“Neanche io so esattamente cosa pensare delle agojie”, spiega: si sente combattuta tra l’ammirazione per il loro coraggio e lo sgomento per la loro crudeltà.

A mano a mano che ci avviciniamo alla spiaggia il cielo s’incupisce, come se qualcuno stesse chiudendo le tende. Le prime pesanti gocce cadono al suolo. Operai cinesi ci sfrecciano accanto in sella ai loro motorini. Sono diretti a un enorme cantiere proprio accanto al monumento.

All’ingresso si legge: “Yunan Construction and Investment Holding Group”. Nel 2025 qui aprirà un resort per i turisti che arrivano in Benin sulle tracce degli antenati. E su quelle delle agojie che hanno visto al cinema. ◆ sk

Cultura
Quattro musei in cantiere

◆ “Dal 2016 il governo del Benin, guidato dal presidente Patrice Talon, ha deciso di puntare sul turismo, sulla cultura e sulle arti per favorire lo sviluppo economico del paese”, scrive Jeune Afrique. Sono previsti investimenti per 250 milioni di euro entro il 2026. “L’obiettivo è creare ricchezza e posti di lavoro all’interno del paese, ma anche migliorare l’immagine del Benin a livello internazionale”. Due anni fa era stata organizzata una grande mostra con le opere che il paese si era fatto restituire dalla Francia: 26 manufatti che facevano parte del tesoro reale di Abomey e che erano stati trafugati dalle truppe coloniali francesi nel 1892. Quest’anno il Benin ha presentato il suo primo padiglione alla Biennale d’arte di Venezia. Inoltre vuole costruire quattro nuovi musei, scrive The Art Newspaper. A Ouidah sarà completato entro la fine del 2024 quello sulla storia della schiavitù. A Cotonou, in un nuovo quartiere della cultura, è in progetto un centro dedicato all’arte contemporanea. Per il 2025 è previsto il completamento ad Abomey del museo dei re e delle amazzoni del Danhomé (Dahomey), dedicato alla storia dell’antico regno. Nella capitale Porto-Novo sarà costruito un museo del vudù.


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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 46. Compra questo numero | Abbonati