Dopo che gli studenti hanno cominciato a protestare contro la guerra israeliana nella Striscia di Gaza, molti miliardari statunitensi hanno minacciato di interrompere le donazioni alle più prestigiose università del paese. Roy Vagelos, invece, ha fatto una scelta diversa. Ex amministratore delegato della compagnia farmaceutica Merck, Vagelos ha deciso di aumentare il suo impegno a sostegno degli istituti d’élite in cui lui e la moglie hanno studiato, facendo nuove donazioni.

Un comportamento opposto rispetto a quello di Marc Rowan, cofondatore della società d’investimento Apollo Global Management, e di Bill Ackman, creatore del fondo Pershing Square. Rowan, ex studente e finanziatore dell’università della Pennsylvania (Penn), ha chiesto le dimissioni della rettrice Elizabeth Magill, accusata di non aver fatto abbastanza per arginare il presunto antisemitismo nel campus. Ackman ha preso di mira Claudine Gay, la rettrice di Harvard, dove il finanziere ha studiato, ma anche l’Mit di Boston e la Columbia university di New York.

Questa varietà nei rapporti tra i donatori più influenti e gli atenei ha portato a un’ampia riflessione sulla dipendenza delle università dalle donazioni private, sull’influenza dei ricchi filantropi e sulle tensioni legate alla libertà accademica.

Nessuna influenza

Amir Pasic, direttore della Lilly family school of philanthropy, un centro dedicata alle attività di beneficenza all’interno dell’università dell’Indiana, sottolinea che “dopo gli attacchi di Hamas a Israele del 7 ottobre 2023 il numero di persone che vogliono far sentire le loro voce è aumentato. Al momento ci mancano gli strumenti per riflettere su quale margine concedere a chi fa donazioni. Formalmente non dovrebbero avere nessuna influenza su come vengono gestiti gli atenei”. La concezione di Vagelos è più sfumata. A gennaio di quest’anno ha annunciato una donazione da 84 milioni di dollari per i progetti scientifici della School of arts & sciences della Penn. Poi ha destinato 400 milioni alla Columbia per un istituto dedicato alla scienza biomedica, che si sono aggiunti ai 250 milioni versati nel 2017 per permettere a studenti senza mezzi economici di frequentare la facoltà di medicina.

“Rowan mi ha scritto chiedendomi di interrompere le donazioni alla Penn”, racconta Vagelos. “Ma in teoria il compito delle università è formare gli studenti perché siano in grado di fare cose buone, siano socialmente attivi e ci aiutino a evitare le guerre. Mi sembra ridicolo voler impedire a un ateneo di funzionare a causa di una disputa politica. Sono felice di continuare a fare donazioni e vorrei che anche altri facessero lo stesso”.

Lynn Pasquerella, presidente della American association of colleges and universities ed ex presidente del Mount Holyoke college, si preoccupa “di una tendenza che favorisce la strumentalizzazione di questi aiuti privati”, alimentata in parte dalle divisioni tra i partiti in vista delle elezioni presidenziali.

Potere eccessivo

Mentre Vagelos annunciava il suo ultimo contributo, chi criticava l’atteggiamento delle università stava guadagnando terreno, tanto che i responsabili della raccolta fondi alla Penn e a Harvard si stavano preparando a un calo delle donazioni. Tra i milionari che hanno deciso di fare un passo indietro c’è Ken Griffin, fondatore del fondo d’investimento Citadel. Nell’aprile 2023 Griffin aveva versato 300 milioni di dollari nelle casse di Harvard, ma con l’inizio del nuovo anno accademico ha fatto sapere che avrebbe sospeso le donazioni perché non era d’accordo con il “programma diversificazione, uguaglianza e inclusione (Dei)” dell’ateneo.

I rettori della Penn e di Harvard si sono dimessi dopo aver partecipato ad alcune udienze al congresso, alla fine del 2023. Minouche Shafik, rettrice della Columbia, si è dimessa ad agosto. Martha Pollack, alla guida dell’università Cornell, quando è stata accusata di non aver introdotto misure sufficienti per contrastare l’antisemitismo è andata in pensione prima del previsto. “Ho preso la decisione da sola”, ha dichiarato Pollack, che però ha aggiunto: “Dobbiamo essere più bravi ad accettare prospettive diverse e ascoltare chi non è d’accordo con noi”.

Nonostante i cambiamenti recenti, è probabile che in autunno le università subiranno nuove pressioni a causa della guerra a Gaza e della risposta degli studenti. Gli atenei si stanno anche preparando a nuovi attacchi dei politici repubblicani, che vogliono sfruttare le fratture tra elettori laureati e non. Spesso chi usa questa retorica populista ha studiato nelle università più prestigiose. Donald Trump, il candidato repubblicano alle presidenziali, ha frequentato economia alla Penn e ora minaccia di reintrodurre le tasse per le donazioni universitarie. Il suo candidato alla vicepresidenza, J.D. Vance, ha studiato legge a Yale, mentre Elise Stefanik, la repubblicana che ha guidato l’azione del congresso contro le università di élite, ha studiato a Harvard.

Le critiche agli atenei hanno richiamato l’attenzione sui rapporti tra amministratori e finanziatori. Una prima preoccupazione riguarda le dimensioni di molti consigli di amministrazione delle università e la loro gestione, oltre alla poca diversità al loro interno. Molti consiglieri sono persone con grandi patrimoni creati o ereditati, scelte perché hanno supportato le università in passato e promettono di continuare a farlo. Di solito vengono dal mondo degli affari e, come Ackman e Rowan, vorrebbero che i consigli funzionassero in modo più “aziendale”.

Questa situazione alimenta il timore che gli amministratori agiscano in base a considerazioni personali e non abbiano intenzione di rappresentare interessi e punti di vista più ampi. Scott Bok, capo della banca d’investimento Greenhill ed ex presidente degli amministratori della Penn (si è dimesso insieme a Magill), dice che il consiglio direttivo dell’università “è fortemente legato ai grandi finanziatori, soprattutto quelli di Wall Street, mentre sarebbe preferibile avere una maggiore varietà, con contributi dal settore delle biotecnologie, dalle grandi aziende, dalle istituzioni accademiche e dalle organizzazioni benefiche”.

Nicholas Dirks, ex rettore di Berkeley e presidente di facoltà alla Columbia, parla del potere eccessivo dei donatori che l’anno scorso hanno cercato di influenzare la gestione delle università: “C’è un problema di libertà accademica se quelli che fanno le donazioni più consistenti cercano di influenzare le nomine e il modo in cui viene definita la libertà d’espressione”.

Ryan Enos, professore di scienze politiche a Harvard, solleva un’altra questione: considerando i patrimoni degli atenei (quello di Harvard è di circa 50 miliardi di dollari, Penn ha 21 miliardi, la Columbia 14 miliardi e la Cornell 10 miliardi), ha senso concentrarsi tanto sulla raccolta di fondi? “La missione delle università non è accumulare ricchezza, ma rendere la società migliore e diffondere la conoscenza”, insiste Enos. Concentrarsi su questo permetterebbe di aggiungere nuovi elementi alle competenze richieste dai consigli direttivi.

Gli amministratori della Cornell quanto meno possono contare su finanziatori come David Einhorn, ex studente e attuale proprietario di un fondo che nel 2021 ha regalato all’università il Center for community engagement. Nel 2023 Einhorn ha scritto alla sua università sottolineando che “le battaglie e le tensioni richiedono un ulteriore impegno. Le crisi creano opportunità per cambiare e migliorare”. Grazie ai donatori come Einhorn, che appoggiano iniziative per rafforzare la tolleranza su temi cruciali come il Medio Oriente, e come Vagelos che sostengono la missione sociale delle università, oggi c’è la speranza che gli amministratori abbiano imparato la lezione e guardino oltre lo scontro attuale.

Le discutibili strategie di finanziatori come Ackman, Rowan e Griffin hanno innescato un dibattito utile. In ogni caso i loro tentativi di creare consigli direttivi che imitano le aziende e dipendono da ricchi sostenitori privati incontreranno probabilmente una solida resistenza interna. ◆ as

Meno diversità

◆ Nel giugno 2023 la corte suprema ha cancellato l’affirmative action, il principio in base al quale gli atenei possono tenere conto dell’appartenenza etnica quando valutano le domande di ammissione, introdotto negli anni sessanta per contrastare le discriminazioni razziali. “Ora cominciano ad arrivare i primi dati sulle conseguenze di quella decisione”, scrive il Boston Globe. “Al Massachusetts institute of technology (Mit) è diminuito il numero di nuovi studenti neri, nativi e ispanici, è rimasto stabile quello dei bianchi ed è aumentato quello degli studenti di origine asiatica”. Per molti dirigenti universitari l’affirmative action era uno strumento importante per consentire le iscrizioni a persone che arrivano da contesti svantaggiati.


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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 24. Compra questo numero | Abbonati