Nei giorni successivi all’attacco di Hamas del 7 ottobre, Max Strozenberg, una matricola della Northwestern university, in Illinois, ha vissuto un paio di esperienze che lo hanno scosso. Entrando nel dormitorio è rimasto sorpreso nel vedere sulla bacheca, accanto ai fantasmi e alle zucche di halloween, un volantino che definiva Gaza un “moderno campo di concentramento”. A una manifestazione filopalestinese ha sentito gli studenti gridare: “Ehi, Schill, confessa, quanti bambini hai ucciso oggi?”. La domanda riprendeva uno slogan contro la guerra del Vietnam, ma ora era rivolta al rettore ebreo della Northwestern, Michael H. Schill.
I nonni paterni di Strozenberg sfuggirono ai nazisti poco prima che altri familiari fossero trasferiti nei campi di concentramento, e oggi lui si trova a resistere alle suppliche della nonna di togliersi la piccola stella di David che porta al collo. L’umore del campus in questi giorni, dice, “non è filopalestinese, è antisemita”. Dal 7 ottobre nei college statunitensi è successo qualcosa. Una tensione a lungo latente è diventata apertamente ostile, con le proteste che spesso si trasformano in scontri fisici. Sia i gruppi ebraici sia quelli musulmani segnalano un aumento degli attacchi basati su pregiudizi.
Sul significato di molte azioni, come quelle raccontate da Strozenberg, c’è un acceso dibattito. Gli studenti filopalestinesi affermano di parlare a nome del popolo oppresso che vive a Gaza. Ma secondo altri molti slogan e proteste finiscono per essere un sostegno al terrorismo e all’antisemitismo. C’è molto disaccordo su quale sia il linguaggio accettabile. Intanto il dibattito si è inasprito e le autorità universitarie hanno difficoltà a contenere la rabbia. Gli studenti ebrei citano una serie di episodi antisemiti. Alla George Washington university gli studenti filopalestinesi hanno proiettato sulla facciata di una biblioteca frasi come “Gloria ai nostri martiri”. Vicino alla sede di una confraternita ebraica dell’università della Pennsylvania, qualcuno ha scarabocchiato “Ebrei = nazisti”. Alla Cooper union, un college privato di New York, alcuni studenti ebrei spaventati si sono asserragliati in una biblioteca mentre fuori i manifestanti gridavano “Palestina libera” e battevano su porte e finestre. E alla Cornell university, uno studente in informatica è stato arrestato per aver scritto online che voleva sparare in una mensa kosher e stuprare e uccidere studenti ebree.
Molti universitari ebrei dicono che, oltre a considerare allarmanti questi attacchi, sono anche amareggiati per gli slogan che sfruttano gli orrori dell’olocausto per rivolgerli contro gli ebrei, accusando gli israeliani di “genocidio” e “pulizia etnica”.
Jason Rubenstein, il rabbino anziano del Joseph Slifka center for jewish life di Yale, ha scritto in una lettera aperta di non essere “d’accordo con molte delle politiche di Israele”. Ma a proposito dell’attacco di Hamas ha affermato: “L’antisemitismo è una forma di paura e di odio nei confronti del potere ebraico e si esprime principalmente nella disponibilità a credere che gli ebrei, quando sono organizzati, diventano pericolosi”. I sostenitori dei palestinesi si sono affrettati a reagire, chiedendo se c’è qualche critica a Israele e al sionismo che possa essere ritenuta accettabile. Dicono che le accuse di antisemitismo sono un tentativo di soffocare il dissenso e distogliere l’attenzione dal blocco che da sedici anni Israele impone a Gaza. E si scagliano contro l’attuale invasione israeliana della Striscia.
“Ci opponiamo fermamente a tutte le forme di razzismo e fanatismo”, dichiara Anna Babboni, una studente dello Scripps college, in California, e leader della sezione locale di Students for justice in Palestine. Babboni insiste sul fatto che il suo gruppo non è antisemita, ma antisionista.
Gli studenti filopalestinesi come Babboni adottano un lessico potente: come tutti i movimenti di resistenza, la causa filopalestinese è “anticoloniale”. Ispirandosi alla lotta contro il razzismo istituzionalizzato del Sudafrica, considerano Israele un “regime di apartheid”. Ognuna di queste espressioni è contestata dagli studenti e attivisti filoisraeliani, che ricordano come molti ebrei fossero dei rifugiati scappati dai pogrom e dall’olocausto per tornare nella loro terra d’origine, dove si ribellarono al dominio coloniale britannico per creare un loro stato.
Dall’inizio della guerra, si susseguono dichiarazioni e controdichiarazioni dei rettori delle università, degli studenti, degli insegnanti e degli ex alunni. Ogni lettera sembra generarne un’altra opposta e il vortice di recriminazioni si allarga a ogni nuova affermazione degli studenti o dei docenti.
Un cambiamento politico
Il dibattito è ulteriormente infiammato dal divario generazionale che sta emergendo nei campus. Di recente la Quinnipiac university, in Connecticut, ha chiesto a un campione di elettori se approvavano la risposta di Israele all’attacco di Hamas: chi aveva dai 35 anni in su tendeva a sostenerla, con percentuali che aumentavano insieme all’età. Ma il 52 per cento degli elettori tra i 18 e i 34 anni la disapprovava.
“Tra le giovani generazioni non è più un tabù essere critici nei confronti di Israele e questo è vero anche per gli ebrei progressisti”, dice Angus Johnston, uno storico che studia e sostiene l’attivismo studentesco. Le attuali proteste filopalestinesi, aggiunge, sono “sostenute e, in molti casi, guidate da giovani ebrei”.
Il Sarah Lawrence college, nello stato di New York, è al settimo posto nella lista dei “sessanta migliori atenei scelti dagli ebrei” pubblicata dalla Hillel, la più grande organizzazione universitaria ebraica. Ma in quel college, di sinistra, gli studenti che sostengono Israele dicono di sentirsi isolati. “Nel campus si dice che se frequenti Hillel sei un razzista”, afferma Sammy Tweedy, un ragazzo ebreo di Chicago che si definisce solidale con entrambe le parti del conflitto. Tweedy dice di aver cominciato a sentirsi particolarmente emarginato dopo aver partecipato a un viaggio in Israele nel 2020. “Non avevo più amici”, dice. “Poi ho saputo che girava la voce che fossi un fascista, un nazista, un razzista”. I problemi si sono aggravati quando è scoppiata la guerra. In quel momento studiava a Tel Aviv e su Instagram alcuni studenti erano arrivati a dirgli: “Hai sulle mani il sangue di Gaza”.
A ottobre la sezione locale della Hillel ha scritto una lettera alla direzione del college minacciando una denuncia se non avesse preso provvedimenti contro “l’antisemitismo persistente e pervasivo”. Tweedy, che accusa l’università di non avere tenuto conto delle sue lamentele, ha deciso di finire il corso di laurea all’estero.
A conferma dell’impasse, Bella Jacobs, una studente ebrea del Pitzer, in California, racconta che molti studenti ebrei si sentono esclusi dagli spazi del campus gestiti dalla Hillel.“La Hillel pretende di parlare a nome di tutti gli studenti ebrei, proprio come il governo di Israele pretende di parlare a nome di tutto il popolo ebraico”, dice Jacobs, che è leader della Jewish voice for peace, un’organizzazione antisionista del campus.
Cresce l’intolleranza
Di fronte alle proteste di donatori ed ex alunni, la Columbia, Harvard e l’università della Pennsylvania hanno formato dei comitati per combattere l’antisemitismo, una strada scelta da altri atenei già prima del 7 ottobre. E l’amministrazione Biden ha dichiarato che renderà più facile per gli studenti vittime di antisemitismo o islamofobia presentare una denuncia per violazione dei diritti civili.
Una delle poche cose su cui gli studenti ebrei e quelli musulmani sono d’accordo è che negli Stati Uniti i pregiudizi stanno aumentando. La Hillel ha segnalato 309 episodi di antisemitismo in 129 campus dal 7 ottobre al 7 novembre: incitamento all’odio, vandalismo, molestie o aggressioni. Molti di più dei cinquanta incidenti in quaranta campus del 2022. Il Council on american-islamic relations, un gruppo musulmano per la difesa dei diritti civili, ha dichiarato di aver ricevuto dal 7 ottobre al 4 novembre 1.283 richieste di aiuto e denunce di attacchi contro musulmani o arabi, con un aumento del 200 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso.
“L’odio che comincia contro la comunità ebraica”, dice Julie Rayman, responsabile politica dell’American jewish committee, “non si ferma mai lì”. ◆ bt
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Questo articolo è uscito sul numero 1538 di Internazionale, a pagina 48. Compra questo numero | Abbonati