Awa Fall si è messa in moto alle cinque di mattina. Come ogni giorno, con la forza delle sue braccia ha spinto la sedia a rotelle tra i gas di scarico di autobus e taxi, schivando buche e venditori fino a raggiungere la sua postazione. Siamo nel centro di Dakar, la capitale del Senegal, affollata di gente: uomini con indosso tuniche eleganti, donne dai tailleur colorati, ambulanti con le cassette di frutta in equilibrio sulla testa, bambini in divisa scolastica. Awa Fall fa tintinnare le monete nella tazza e ogni tanto qualcuno ci lascia cadere qualche soldo. Ma la maggior parte della gente passa senza dare nulla. Di sera la donna torna nella stanza che condivide con due amiche in sedia a rotelle come lei. È al piano terra di una casa modesta. Tre letti, un armadio, un sacchetto di plastica con poche cose dentro. Alle pareti hanno attaccato delle foto di loro tre truccate e pettinate alla perfezione. Sembrano principesse.

Fall ha quarant’anni e un simpatico viso rotondo. Nell’ampio vestito leopardato appare fragile e robusta allo stesso tempo. Dice di vergognarsi a chiedere l’elemosina. “Sono così orgogliosa. Preferirei di gran lunga lavorare”, spiega. Vorrebbe fare la sarta o realizzare gioielli, ma quando ha provato a cercare un lavoro ha ottenuto solo rifiuti.

Non può camminare perché da bambina le hanno fatto un’iniezione sbagliata. Forse era un vaccino, ma non lo sa con certezza. Fall viene da un villaggio che dista duecento chilometri da Dakar. Dopo la morte dei genitori si è trasferita insieme a due amiche in questa metropoli di un milione di abitanti. “È stato uno shock”. Non c’era nessuno ad accoglierle, nessuno che conoscevano. Hanno dormito spesso per strada. Oggi possono permettersi una stanza in affitto, ma non sanno mai quanto riusciranno a racimolare chiedendo l’elemosina. Con la pandemia molte persone si tengono stretti i soldi. “Ci sono giorni in cui non riusciamo a mettere insieme il necessario per comprarci la cena”, dice Fall.

Qualcosa per loro

Una donna in sedia a rotelle che si guadagna da vivere chiedendo l’elemosina in una città africana. Si potrebbe pensare che la lotta per la sopravvivenza non possa essere più spietata di così. O che Fall usi tutta la sua energia e tutti i suoi miseri guadagni per assicurarsi una vita minimamente dignitosa. Ma le cose in Senegal non sono sempre come sembrano agli occidentali.

Dopo la morte dei genitori Fall si è trasferita a Dakar perché ha sette sorelle e fratelli più piccoli. Per quanto poco possa mettere da parte, manda sempre qualcosa al villaggio. A volte tra una rimessa e l’altra passa una settimana, se non di più. A volte manda l’equivalente di otto euro, altre di più. Riesce a mantenere anche una zia malata. Quando le chiediamo perché lo fa e cosa significhi per lei, Awa Fall alza le spalle: “Voglio aiutare la mia famiglia”.

Così mantiene otto parenti: più persone di quelle che in genere riescono a vivere con un singolo stipendio nella ricca Germania.

Sulla situazione economica dell’Africa si è riflettuto molto: studiosi ed esperti si sono chiesti perché in questo continente generalmente le persone vivano in condizioni economiche peggiori che negli altri. Di solito gli autori di questi studi sono occidentali che pubblicano su riviste o per case editrici europee o statunitensi. Parlano di un ordine economico globale ingiusto, del bieco sfruttamento delle risorse naturali africane di cui beneficiano solo le multinazionali e una ristretta élite locale. Parlano della mancata industrializzazione, della corruzione e del malgoverno. “All’alba delle indipendenze africane, la vulgata afropessimista ha qualificato senza colpo ferire l’Africa come un continente partito male e alla deriva; un mostro agonizzante”, scrive uno dei più importanti pensatori postcoloniali africani, il filosofo senegalese Felwine Sarr, nel libro Afrotopia. “La presenza degli esseri umani al mondo è valutata solo in punti di pil o in base al loro peso nel commercio internazionale”.

In genere questi studi non tengono conto della famiglia allargata. A Dakar molte persone vivono in situazioni simili a quella di Awa Fall. C’è la donna delle pulizie costretta a chiedere soldi in prestito ai vicini per sfamare i figli, ma che invia denaro a zii e zie. C’è il guardiano notturno che con il suo stipendio mantiene non solo la moglie e i figli, ma anche decine di altri parenti. C’è la studente che, con il suo lavoretto, si paga gli studi e manda soldi alla famiglia di suo fratello. Anche le coinquiline di Fall mandano ai parenti buona parte delle loro elemosine. Spesso quei soldi continuano a viaggiare, per raggiungere parenti ancora più lontani. Il denaro deve sempre circolare, non deve mai fermarsi.

La vita di molti africani è condizionata, nel bene e nel male, dalla consapevolezza di avere un obbligo speciale nei confronti dei parenti. La famiglia allargata è croce e delizia, oneri e onori. Produce solidarietà e invidia, gioia e disperazione. Arricchisce e allo stesso tempo impoverisce. Nessuno lo sa meglio di Hassane Diagne.

Al centro del sistema

Diagne, 36 anni, è uno di quelli che fanno girare i soldi. Giorno dopo giorno, partecipa alla grande ridistribuzione. Ha un negozietto dalla vetrina decorata con gli adesivi della Western Union, della MoneyGram, della Orange Money e della Wari, tutte aziende che offrono servizi di trasferimento di denaro. Lui ha studiato l’allestimento del negozio in ogni dettaglio. In una bottiglia d’acqua che tiene un po’ nascosta ha infilato dei bigliettini con scritti alcuni versetti del Corano, un sortilegio con cui pensa di attirare più clienti. Nel posto dove le persone aspettano i loro soldi ha messo invece uno specchio che, guarda caso, mostra i prodotti in vendita: creme, profumi, quaderni. “Voglio sfruttare quella scossa di adrenalina che il cliente riceve quando ha in mano il denaro”, spiega sorridendo. Diagne è un tipo simpatico, dallo sguardo bonario, che ama il confronto e la compagnia. A vent’anni ha aperto il suo primo internet café e ha continuamente nuove idee su come fare affari.

Il negozio è stato una buona idea. Diagne non può certo lamentarsi di avere pochi clienti. Quasi tutti gli scambi di soldi avvengono tra persone imparentate, osserva l’imprenditore, che incassa una provvigione su ogni trasferimento. Grazie anche ad altre attività collaterali, in totale mette insieme più di tremila euro al mese, in un paese dove il reddito medio è di 1.300 euro all’anno. “Potrei vivere come gli europei”, osserva. Ma c’è quello che lui chiama “il sistema”: la famiglia allargata. Anche lui ne ha una, e assorbe tutti i suoi soldi.

Dopo il lavoro Diagne chiude il negozio con grossi lucchetti, sale in macchina e torna nella sua casa elegante. Quando apre la porta è accolto da bambini che gli saltano in braccio, mentre i cugini gli danno pacche sulle spalle. La madre e la nonna gli fanno un cenno dal divano, la sorella e una delle sue due mogli gli chiedono com’è andata la giornata. Lui si gode il trambusto e il chiacchiericcio. Nella sua casa e in un altro appartamento che ha preso in affitto vivono diciannove suoi familiari.

Piroghe su una spiaggia di Dakar, 5 gennaio 2021. Queste imbarcazioni sono spesso usate dai giovani che cercano di raggiungere le isole Canarie - Christian Bobst
Piroghe su una spiaggia di Dakar, 5 gennaio 2021. Queste imbarcazioni sono spesso usate dai giovani che cercano di raggiungere le isole Canarie (Christian Bobst)

Lui gli paga l’elettricità, il gas e il necessario per mangiare. Paga anche la scuola privata a quattro figli e sei nipoti: ogni mese per le rette spende l’equivalente di 530 euro. Inoltre invia rimesse a numerosi parenti nel suo villaggio d’origine e a persone con cui non ha legami di sangue ma verso le quali si sente in obbligo, perché originarie dello stesso villaggio. “Se sei un figlio premuroso”, dice, “sei figlio di tutti”.

Di giorno al lavoro e la sera a casa il suo telefono squilla in continuazione. E lui risponde: “Pronto, ma che bello sentirti!”. “Prooonto, ma che sorpresa!”. Tra i questuanti c’è chi ha davvero bisogno e chi invece se la passa bene, chi si accontenta e chi ha mille pretese. C’è chi si è gravemente ammalato e chi desidera un televisore più grande. Diagne ha due fratelli maggiori che vivono negli Stati Uniti e che lo aiutano a soddisfare tutte queste persone. Diagne è un imprenditore nato, sempre pronto ad avventurarsi in nuovi affari e a investire. Ma per farlo serve del capitale: dovrebbe riuscire a risparmiare o a ottenere un prestito dalla banca. Ovviamente sa calcolare gli investimenti e redigere un bilancio, proprio come gli imprenditori dei paesi ricchi. “Ma il sistema ti blocca”, spiega.

Le spese di una famiglia allargata non sono solo alte, ma anche imprevedibili. Fatture dell’ospedale, nascite, funerali. C’è sempre qualcuno che chiede qualcosa. “Un imprenditore africano non può mettere da parte dei soldi. Le spese devi pagarle e basta”.

Diagne ha due conti in banca da cui escono costantemente soldi, mentre si sforza in ogni modo di farceli entrare. Quando non è in negozio ripara computer, vende accessori per pc, fa l’agente immobiliare e rivende automobili. Anche se guadagna come pochi altri in Senegal, vive alla giornata e a volte deve farsi prestare qualcosa dagli amici. “Quello che guadagno non mi appartiene. Quello che possediamo si limita ad attraversarci. Io lo prendo e lo passo”, spiega.

Del resto ha sempre vissuto così. Suo padre era un contadino. Era stato il primo del villaggio a trasferirsi con la famiglia nella capitale, diventando un punto di riferimento per la comunità d’origine. Con il passare degli anni un numero sempre più alto di familiari si è trasferito dalla campagna in città, a casa del padre di Hassane, che li manteneva tutti.

Christian Bobst

Quando lui ha compiuto dieci anni, il padre lo ha mandato a vivere al villaggio, dov’è rimasto per cinque anni. Ancora oggi si mandano i bambini nel villaggio d’origine per mesi interi. Hassane Diagne parla di “vaccino alla senegalese”: un rimedio contro le tentazioni della metropoli, contro l’individualismo e la disgregazione sociale.

Insieme per scelta

A Dakar un nucleo familiare è composto in media da otto persone, in campagna da molte di più. In Germania la media è meno di due. In Senegal il 35 per cento dei coniugati è poligamo, e ogni donna ha in media 4,9 figli (in Germania 1,5). “In Senegal la famiglia nucleare non esiste”, spiega Fatou Sow, sociologa dell’università Cheikh Anta Diop di Dakar. “E anche per chi vive in una famiglia nucleare i legami di solidarietà vanno ben oltre”. Essere solidali significa subire una continua pressione perché tutto sia ridistribuito, e questo rende difficile pianificare il futuro.

Sociologi e storici hanno a lungo sostenuto che anche la vita quotidiana della maggior parte degli europei un tempo si svolgesse all’interno di famiglie allargate, almeno fino all’ottocento, quando l’industrializzazione spinse le persone verso le città, a lavorare nelle fabbriche e negli uffici e a vivere negli appartamenti.

Tuttavia oggi sappiamo che la famiglia nucleare in Europa si era diffusa già molto tempo prima. Certo, c’erano molte famiglie allargate, soprattutto di ricchi e aristocratici, ma alcuni studi su una particolare zona rurale della Francia hanno scoperto che nell’undicesimo secolo raramente le famiglie contavano in media più di tre figli. Già a quei tempi nell’Europa centrale e occidentale uomini e donne si sposavano più tardi che nel resto del mondo, tra i 25 e i 29 anni. E siccome all’epoca l’aspettativa di vita era bassa, era difficile che tre generazioni vivessero sotto lo stesso tetto.

Secondo l’antropologo sociale britannico Jack Goody, il potere della famiglia allargata europea svanì già nel periodo tardoantico, quando la chiesa consolidò la sua influenza sul continente. La morale cristiana condannava il divorzio, il concubinato e il matrimonio tra parenti lontani tipico della famiglia allargata; inoltre rafforzava il legame tra i coniugi e dunque la famiglia nucleare. La chiesa ne traeva un profitto economico, perché spesso ereditava i patrimoni delle coppie senza figli o delle vedove, che altrimenti sarebbero finiti ai parenti.

Ancora oggi si mandano i bambini nel villaggio d’origine per mesi interi

Nel corso dei secoli a nord del Mediterraneo si sviluppò quello che è stato chiamato l’homo œconomicus europeo, che nel suo percorso verso la modernità si è liberato da legami sociali, tradizioni e comunità per diventare più individualista. A sud del Mediterraneo invece è rimasto predominante l’homo socius, l’essere umano come animale sociale.

È così che lo ha identificato Abdoulaye-Bara Diop, un noto sociologo senegalese che studiò la struttura sociale dei wolof, il più numeroso dei venti gruppi etnici che compongono il Senegal. La concezione della ricchezza dei wolof si ritrova in molte altre zone del continente africano.

Tradizionalmente, “ricchezza” indica innanzitutto l’abbondanza di persone.

Secondo gli studiosi questo era legato all’agricoltura dell’Africa occidentale, che richiedeva l’impiego di numerosa manodopera: in epoca precoloniale avere tante mogli e un’ampia prole significava poter impiegare più braccia nei campi, nel lavoro domestico e di cura. In questo modo un uomo poteva formare alleanze con altre famiglie allargate, guadagnando prestigio. I figli maschi del patriarca vivevano con le loro famiglie sulla stessa terra, lavorandola e formando un’unità economica e di sostentamento che comprendeva decine di persone, a volte anche più di cento. La sopravvivenza del clan contava più di ogni altra cosa e il singolo doveva sottomettersi alla gerarchia familiare. Tutto veniva condiviso.

Era questo il mondo che si trovarono davanti gli europei quando, a cominciare dal quattrocento, si stabilirono sulle coste del Senegal per dedicarsi alla tratta degli schiavi. Solo nell’ottocento i francesi penetrarono all’interno per sfruttare le risorse naturali. La colonia doveva fornire soprattutto arachidi. I francesi costruirono ferrovie, suddivisero il paese in distretti amministrativi, fondarono scuole. I sudditi senegalesi dovevano imparare a parlare, sentire e vivere come i francesi, abbandonando la poligamia e creando famiglie di dimensioni più ridotte. Ma i colonizzatori fallirono, almeno in parte.

Mali Dieng, 67 anni, è un uomo esile, dalla voce flebile. Ha fatto il muratore per molti anni. Lui e la moglie sono seduti sul letto della loro camera dalle pareti azzurre. La coppia divide con altre famiglie una piccola casa a Dakar, proprio alle spalle di una spiaggia sull’Atlantico. Dieng guarda la tv: il presidente sta tenendo un discorso in francese, la lingua ufficiale del paese. Dieng non capisce quasi niente, proprio come la maggior parte dei senegalesi: per loro la lingua di tutti i giorni è il wolof. “Lo stato”, dice Dieng gettando un lungo sguardo sul presidente, “è distante da noi. Il sostegno della famiglia e della comunità è molto più importante”.

Il Senegal non è uno stato fallito. Rispetto ai paesi confinanti, può essere considerato una democrazia solida. Ma nella vita quotidiana della maggior parte delle persone, dalla mendicante Awa Fall all’imprenditore Hassane Diagne, lo stato non conta molto. E questo anche per via del passato coloniale.

Da un lato, la Francia riuscì a imporre efficacemente il suo dominio: nelle campagne gli uomini trascuravano i campi della famiglia allargata per dedicarsi alla coltivazione delle arachidi da rivendere agli emissari dei francesi. Non lavoravano più per il bene comune della famiglia. Parte del vecchio ordine sociale si sgretolò. Anche in altre parti del continente si registrarono cambiamenti simili.

D’altro canto, non si poteva semplicemente imporre il modello di stato occidentale a un’altra cultura. Ai francesi mancavano soldi e persone, e la loro influenza sulla popolazione fu limitata. Il nuovo non riuscì a sostituire il vecchio e l’homo socius non si trasformò in un homo œconomicus all’europea. Emerse un peculiare sincretismo, che unì il vecchio senso di comunità della famiglia allargata con un nuovo egoismo capitalista. La tradizione e il cambiamento, la logica del clan e il modello statale occidentale.

“Abbiamo vissuto la modernità, l’abbiamo rifiutata, accettata, decostruita, riconfigurata”, osserva la sociologa Fatou Sow. “Insomma, l’abbiamo trasformata”.

“Abbiamo vissuto la modernità, l’abbiamo rifiutata, decostruita, riconfigurata”

Se molti senegalesi oggi evitano di pagare le tasse è perché vedono lo stato come un prodotto d’importazione europeo, spiega Ahmadou Aly Mbaye, economista e rettore dell’università Cheikh Anta Diop. “Non lo considerano il loro stato”. E per questo non è possibile creare un sistema di welfare.

La pressione sugli emigrati

Da giovane, nel periodo successivo all’indipendenza del paese, il muratore Mali Dieng sperava in uno stato forte, che lo aiutasse a raggiungere la sicurezza e un modesto benessere, e che mantenesse quella promessa che era sulla bocca di tutti gli esperti internazionali: il futuro appartiene all’Africa. Per un po’ le prospettive non furono poi così male. “C’erano aziende e ditte edili senegalesi, compresa quella per cui lavoravo io. Avevo un impiego fisso”, racconta. Pagava anche le tasse. “Facevo una bella vita”.

Negli anni settanta la siccità fece piombare il Senegal nella recessione. La Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale imposero al governo l’apertura al mercato mondiale allo scopo di aumentare le esportazioni. L’industria senegalese non fu in grado di tenere testa alla concorrenza e il mercato locale fu inondato da prodotti di importazione. “Nei decenni successivi le aziende dovettero chiudere una dopo l’altra”, racconta Dieng. “Anche quella per cui lavoravo”. I lavori regolari scomparvero. Oggi il 96 per cento dei senegalesi lavora nell’economia informale. Quasi tutti gli artigiani, le commesse e gli autisti lavorano senza assicurazione, senza diritto alla pensione e senza aspettarsi nulla dallo stato. E non pagano le tasse.

Fino a non molto tempo fa Dieng era uno di loro. Lavorava per dei senegalesi che erano riusciti a fare dei passi avanti nella scala sociale. Ma andando all’estero, in Europa. Dieng infatti faceva il muratore per gli emigrati che con i soldi guadagnati all’estero si costruivano una casa nel paese d’origine. Sontuose ville rosa e gialle sulla spiaggia, non troppo lontane dalla stanzetta dove oggi Dieng vive.

Di notte, quando si affaccia alla finestra, l’ex muratore vede ragazzi che salgono su enormi e colorate imbarcazioni di legno per affrontare una o due settimane di viaggio in mare in direzione delle isole Canarie.

Molti di loro non arrivano a destinazione, spiega Julia Stier, che studia l’emigrazione dall’Africa occidentale verso la Germania presso il Centro di studi sociali di Berlino. E chi ci riesce “subisce una pressione fortissima”: la famiglia allargata si aspetta un sostegno economico. Ufficialmente le rimesse dall’estero ammontano al 10 per cento del prodotto interno lordo senegalese, ma in realtà potrebbero essere anche il doppio, afferma Stier.

Con la crisi provocata dalla pandemia questo flusso di denaro si è ridotto. Dieng non trova più lavoro. Sua moglie è malata e nessuno dei due percepisce la pensione. Possono contare solo sull’aiuto dei figli adulti. A volte a dargli una mano sono i vicini. In Senegal, dove manca un apparato di assistenza sociale universale, l’imperativo della solidarietà diretta e personale non riguarda solo i parenti.

Con un aplomb degno di una direttrice di banca, Mbene Ndao, 63 anni, è seduta su una stuoia colorata in un edificio in costruzione vicino al mare. Di fianco a lei c’è una grande zucca a fiasco aperta. Intorno sono sedute una ventina di donne. Una venditrice del mercato, con un bambino sulla schiena tenuto da una fascia, si alza e con disinvoltura getta nella zucca tre biglietti da diecimila franchi cfa, più o meno 46 euro. Poi è il turno di un’imprenditrice che paga anche per la sua vicina, “che oggi ha un impedimento”. Poi tocca a una casalinga. Ndao le chiama una alla volta e annuisce guardandole con severità. Vicino a lei è seduta la sua assistente. Alla fine la zucca è piena: contiene quasi due milioni di franchi cfa, più di tremila euro.

Mbene Ndao, una donna affascinante e risoluta, gestisce alcune tontine, circoli di risparmio riservati alle donne. In questa tontina, che Ndao ha chiamato “Il grande guadagno”, chi partecipa versa sempre lo stesso contributo. Poi in due si dividono il totale. A lungo andare, le donne ricevono una cifra uguale a quella che hanno depositato nella zucca.

Il vantaggio è che in questo modo riescono a risparmiare, cosa per niente scontata in un paese dove pochi hanno un conto in banca. Se parenti o conoscenti passano a chiedere dei soldi, le donne di Ndao possono rispondere senza perdere la faccia che, purtroppo, devono versarli alla tontina.

L’occupazione principale di Ndao è fare massaggi reiki, una pratica della medicina giapponese diffusa anche in Senegal. Le tontine non le servono per guadagnare, ma non sono un hobby: le servono ad accrescere la sua fama e la sua reputazione. Ndao gestisce i risparmi di almeno trecento donne, e a molte altre concede prestiti senza interessi, perché l’islam lo proibisce. “Ogni buona azione che compi ti ripagherà”, dice. In questo modo è diventata una persona influente, corteggiata perfino dai politici che sperano di beneficiare delle sue indicazioni di voto.

Reti analogiche

Secondo l’antropologo franconigerino Jean-Pierre Olivier de Sardan, in Africa le persone tendono ad avere reti sociali più ampie di quelle di asiatici, europei e americani. E sono reti analogiche, non su Face­book o Instagram. Ndao dice di avere migliaia di contatti, ne aggiunge continuamente di nuovi e alcuni li ha ereditati. “Se mia nonna fa amicizia con la nonna di un’altra donna, noi nipoti abbiamo il dovere di coltivare il rapporto”, spiega. “I contatti contano molto di più dei soldi”.

In Senegal non è sempre facile separare i due piani. Il vecchio sistema di assistenza reciproca, con i suoi doni e i suoi favori, attraversa le società di molti paesi africani. I rapporti di parentela si possono estendere, e può capitare che vengano presentate come madri quelle che in realtà sono zie, altre mogli del padre o vicine di casa. “Mia madre diceva sempre così: non importa dove vai, l’importante è che ti cerchi una mamma. Non essere mai individualista né in tempi di povertà né in tempi di abbondanza”, dice la scrittrice senegalese Mariama Ndoye, secondo la quale “la parentela non dipende dal sangue, è una questione di comportamenti”.

Se in teoria ognuno può diventare parente di chiunque altro, si crea qualcosa di molto prezioso: la coesione sociale. La osserviamo quando la mendicante Awa Fall va a pranzo con altre donne in sedia a rotelle. Sedute sul ciglio della strada, mangiano, ridono e chiacchierano. Se una di loro si ammala, se deve partecipare a un matrimonio o a un battesimo, le altre fanno una colletta per contribuire alle spese.

La percepiamo quando chiediamo all’imprenditore Hassane Diagne se qualche volta non senta il bisogno di stare da solo. La domanda lo sorprende. “Mi piace avere gente intorno”, risponde. “Credo nella famiglia allargata”.

La notiamo anche nelle parole con cui il muratore Dieng descrive il suo quartiere: sorge nel bel mezzo di una metropoli, ma lì tutti conoscono tutti. Praticamente ogni lavoro che gli viene affidato è concordato sulla fiducia. Chi, come lui, lavora nel settore informale non ha quasi possibilità di denunciare un committente che si rifiuta di pagare. Eppure Dieng ottiene sempre quello che gli spetta.

Qui sopra, Mbene Ndao raccoglie i soldi per il suo circolo di risparmio a Dakar, 5 gennaio 2021. A sinistra: un manifesto pubblicitario a Dakar, 6 maggio 2019 - Christian Bobst
Qui sopra, Mbene Ndao raccoglie i soldi per il suo circolo di risparmio a Dakar, 5 gennaio 2021. A sinistra: un manifesto pubblicitario a Dakar, 6 maggio 2019 (Christian Bobst)

Ne facciamo esperienza diretta una sera, quando l’amministratrice della tontina Mbene Ndao va al matrimonio di una vicina. In un vicolo ci sono più di cento donne, tutte vestite in modo molto appariscente. Chi non possiede gioielli d’oro se li è fatti prestare. Chi non aveva una borsetta elegante l’ha presa da un’amica. In una cerimonia le parenti, amiche e vicine consegnano i doni alla madre della sposa. Nel frattempo la sposa è festeggiata in un rito separato che si tiene nelle vicinanze. Sul pavimento si accumulano montagne di stoffe, pentole da cucina, teiere e bicchieri per il tè. Alcune donne tamburellano su recipienti di plastica capovolti, altre ballano e una cantante, in un crescendo di grida stridule, incita tutte a donare di più: “Ecco le due mogli dello zio! Fateci vedere chi è la più generosa. La prima? La seconda? Ed ecco qui una vecchia amica della madre della sposa, cosa ci ha portato?”.

Con un gesto teatrale la vecchia amica alza al cielo una banconota dopo l’altra, le mostra a tutti e poi le getta in grembo alla madre della sposa. Di fianco a lei, una delle sorelle della sposa annota su un quaderno l’ammontare del denaro.

In Senegal molte donne hanno un quaderno del genere. Serve a non perdere la visione d’insieme dei regali. All’occasione successiva chi ha ricevuto un dono ricambierà con uno di pari o maggior valore, a cui seguirà un altro regalo ancora. E avanti così per tutta la vita. Anche questi rapporti fatti di doni reciproci si ereditano di generazione in generazione.

Fonte di stress

Una volta si trattava di piccole somme. Ma ormai ci sono posti dove il valore dei regali è salito così tanto che alcune donne, per rispettare i propri obblighi, sono costrette a indebitarsi. Il governo ha cercato di limitare questa usanza, ma nessuno gli dà retta. Il tradizionale scambio di favori si è fuso allo spirito moderno del capitalismo ed è diventato mostruoso. E allora la solidarietà diventa una fonte di stress. Ne soffrono in molti: la parlamentare a cui tutti chiedono che assuma cugini, nipoti e vicini (in politica l’obbligo a venirsi in aiuto spesso si traduce in corruzione e nepotismo); il dipendente di un’ong portato all’esaurimento dagli innumerevoli questuanti solo perché ha un buon salario; il giovane che dopo un viaggio in Europa spegne il telefono per un mese perché troppi conoscenti gli chiedono se ha portato un paio di scarpe da ginnastica o un iPhone per loro.

Gnilane Kane, 36 anni, laureata in giurisprudenza, madre di una bambina di sei anni e di un neonato, ha conosciuto il suo compagno, informatico, all’università. I due si sono trovati subito d’accordo: osiamo. Viviamo da soli. Formiamo una famiglia nucleare, senza genitori, zii, cugine. A Dakar sono sempre più numerose le coppie che vogliono essere libere dalle richieste dei familiari. Vogliono crescere i figli senza interferenze. E dicono che in città più di due o tre bambini non se li possono permettere.

Sette anni fa Kane e il compagno si sono sposati e si sono trasferiti in un confortevole appartamento vicino al mare. Un sogno da classe media, radicalmente diverso dalla realtà della famiglia allargata in cui è cresciuta Gnilane Kane. Racconta che sua madre cucinava sempre tantissimo, perché non mancava mai qualcuno per cui all’ultimo bisognava aggiungere un posto a tavola.

Da sapere
L’aiuto della diaspora

◆ Nell’anno in cui è scoppiata la pandemia di covid-19 le rimesse inviate dagli emigrati alle famiglie nei paesi d’origine non sono diminuite in modo consistente, rivelano i dati della Banca mondiale pubblicati nell’ultimo Migration and development brief. Nonostante le chiusure delle frontiere, le limitazioni delle attività produttive e le misure di confinamento, gli emigrati sono riusciti a mandare soldi ai familiari lontani, soprattutto se hanno potuto beneficiare dei programmi di sostegno sociale adottati dai governi dei paesi sviluppati. Nel 2020 le rimesse inviate nei paesi più poveri hanno raggiunto i 540 miliardi di dollari, l’1,6 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Ci si aspettava un calo più consistente, considerato che nel 2009 la crisi finanziaria globale fece crollare le rimesse del 30 per cento da un anno all’altro. “Mentre il covid-19 colpisce le famiglie di tutto il mondo, le rimesse continuano a essere un’ancora di salvezza per i più poveri e vulnerabili”, commenta Michał Rutkowski, economista della Banca mondiale. Nel 2020 i trasferimenti di denaro sono aumentati del 2,3 per cento in Medio Oriente e Nordafrica, mentre sono calati del 12,5 per cento nell’Africa subsahariana. Il dato è influenzato dalla situazione della Nigeria, dove le rimesse sono diminuite del 28 per cento perché s’ipotizza che siano stati usati di più i canali non ufficiali. In Zambia, Mozambico, Kenya e Ghana, invece, c’è stato un aumento.


Kane e gli altri bambini andavano in giro senza un adulto che li sorvegliasse e nessuno se ne preoccupava, perché si conoscevano tutti. Il padre era poligamo ed era quasi sempre assente. “In un mondo del genere impari a condividere”, dice Kane.

Oggi lei e il marito vivono come avevano programmato, in una famiglia nucleare. Eppure anche loro provvedono economicamente alla sorella e alla cognata di Kane, e alle loro famiglie.

Ascoltando Gnilane Kane s’intuisce l’ambivalenza dei suoi sentimenti: se da una parte ama la sua vita, dall’altra si rammarica perché i suoi figli non hanno la stessa spontaneità che aveva lei. Da bambina per lei era normale sedersi in braccio a chiunque. Per sua figlia no. Molti giovani senegalesi idealizzano il modello familiare europeo, ma non apprezzano l’anonimato e l’atomizzazione delle società occidentali.

Hassane Diagne, proprietario del negozio di money transfer, vorrebbe investire in servizi che in Senegal ancora mancano. Nel paese gli anziani si accudiscono e si curano in casa. Vivono con figli e nipoti e dalle famiglie ricevono calore umano. Ma secondo Diagne questo potrebbe cambiare. Se riuscisse ad accumulare del capitale, costruirebbe la prima casa di riposo per anziani del Senegal. “Sarebbe un investimento sicuro”, dice.

E con i profitti cosa farebbe? “Ovviamente andrebbero alla mia famiglia”.

Può darsi che un giorno Gnilane Kane e il marito andranno a vivere in una casa di riposo per anziani. “Abbiamo deciso di fare di tutto per non dover pesare sui nostri figli quando andremo in pensione”.

Kane osserva che la figlia Anastasie sta crescendo in modo molto diverso da com’è cresciuta lei. Non va in giro a correre con gli amici del quartiere se non ci sono adulti a sorvegliarli. E con il padre ha un legame molto stretto. “Parliamo di più delle cose che vede, siamo più vicine”, osserva la madre. “Alla sua età passavo tutto il mio tempo con altri bambini della mia età. Non direi che lei è più intelligente, ma è sicuramente più sveglia. Fa più domande”.

Qualche anno fa, però, quando Anastasie ha cominciato ad andare all’asilo, l’educatrice ha fatto un’osservazione che ha colpito Kane. Le ha detto: “A tua figlia non piace molto condividere”. ◆ sk

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1423 di Internazionale, a pagina 44. Compra questo numero | Abbonati