Ayesha Lari, 24 anni, è una grande appassionata di sari. L’anno scorso ha trascorso il suo primo Eid lontano da casa, insieme a sei amiche, e tutte indossavano il sari. È stato un modo speciale di celebrare la festività islamica, perché la maggior parte delle donne in Pakistan nelle occasioni speciali indossa il tradizionale shalwar kameez (un completo con tunica e pantaloni) o una sua variante. Per Lari però il sari fa parte del suo guardaroba da quando ne ha trovato uno della nonna, più di dieci anni fa. Ora indossa abitualmente questa fascia di stoffa al lavoro e nelle occasioni mondane.
Molte giovani donne, soprattutto nelle aree urbane del Pakistan, hanno cominciato a indossare il sari, sparito negli anni ottanta dall’uso quotidiano negli ambienti dell’alta e media borghesia. C’era stato anche un rifiuto pubblico del sari, perché era associato all’India e all’induismo. La spinta all’islamizzazione data dal presidente Zia-ul-Haq negli anni settanta aveva inoltre diffuso la percezione che si trattasse di un indumento non adatto alle musulmane del paese. Questo perché molte persone in Pakistan pensano sia impossibile indossarlo senza scoprire la pancia, anche se ci sono modi di drappeggiarlo senza che accada. A quest’idea ha contribuito la cultura pop indiana, che sessualizza il sari.
Un po’ di ribellione
Negli ultimi anni, però, per molte ragazze delle aree urbane l’uso del sari è diventato un simbolo di autodeterminazione. Nell’ultimo decennio anni queste donne hanno cercato dei modi per fare dei gesti femministi e rivendicare gli spazi pubblici. All’annuale marcia delle donne, per esempio, si sentono slogan come “mio il corpo, mia la scelta”. Nel 2015 il movimento Girls at Dhabas ha incoraggiato le donne a starsene sedute nei ristoranti e nelle sale da tè che affacciano sulla strada e costellano uno spazio pubblico dominato in larga misura dagli uomini.
“C’è un po’ di ribellione. È come se dicessi, io non mi adeguo al modo in cui dovrei apparire ma indosso qualcosa che è solo mio, mi fa stare bene e rappresenta la mia cultura, anche se è qualcosa che ‘non dovremmo’ indossare”, spiega la giornalista e conduttrice radiofonica Sabah Bano Malik. Molte postano le loro foto con hashtag come #Sarisforallsizes, e su Instagram spuntano nuovi marchi di sari come the Saree Girl.
Non tutte le donne, però, hanno accolto con favore questa tendenza. Malik racconta che sua madre “associa il sari alla sessualizzazione del corpo femminile”. Non per questo Malik nel 2021 ha rinunciato a sfilare in sari, anche se poi è stata attaccata per aver indossato un capo indiano e criticata per il suo aspetto fisico. In base agli standard di bellezza radicati da tempo in Asia meridionale, la donna ideale dev’essere di carnagione chiara, con pelle perfetta, magra e non troppo bassa. Di recente però queste aspettative sono finite sotto accusa, così come il body shaming e il controllo moralista sui corpi di giovani donne e ragazze, che spesso si manifesta con commenti non richiesti di familiari e conoscenti.
Per Miral Khwaja, fondatrice del marchio Beenarasee, i sari erano una parte fondamentale della vita familiare. “Quando Zia ha vietato alle donne che avevano incarichi pubblici di indossarlo, la mia famiglia ha cominciato a farne scorta”, spiega. “Mia madre e mia zia mi hanno portato così spesso in India con loro che non ho mai fatto caso al tabù sui sari”.
Per molte famiglie divise tra Pakistan e India, i sari rappresentano un legame con le tradizioni e la storia familiare. Fino agli anni ottanta era un indumento molto diffuso. Naseema Begum, figlia dell’ex presidente Ayub Khan, indossava spesso un sari di seta quando accompagnava il padre agli eventi pubblici. Nusrat Bhutto, moglie dell’ex primo ministro Zulfikar Ali Bhutto, fondatore del Pakistan peoples party, era considerata un’icona di stile, in particolare per i suoi sari. Non era insolito, inoltre, vedere donne indossare il sari nelle pubblicità, nei film e nei telegiornali. Poi piano piano è scomparso. In primo luogo, si era diffusa l’idea errata secondo cui Zia-ul-Haq avesse vietato di indossarlo. In realtà il divieto era solo per le donne che avevano un ruolo pubblico, come le giornaliste. Inoltre, il fatto di indossare il sari e di mostrare la vita era considerato tipicamente indiano e non islamico. “Dato che all’epoca le conduttrici dei telegiornali influenzavano la moda, il fatto di non vederle più indossare il sari ha avuto un grande rilievo”, spiega Saba Imtiaz, che scrive di cultura e diritti umani.
In seguito, quando Benazir Bhutto – nel 1988 la prima donna a guidare un governo in Pakistan – ha cominciato a indossare il _shalwar kameez _con il suo caratteristico foulard bianco, questo capo d’abbigliamento non solo ha guadagnato enorme popolarità, ma è diventato anche di fatto l’abito tradizionale pachistano.
Nuovi abbinamenti
Oggi molte giovani donne, invece che alle tradizionali camicette, hanno cominciato ad abbinare il sari a camicie con bottoni al collo, con taglio alto e perfino con reggiseni sportivi. Ci sono anche dei marchi di nicchia che sperimentano nuovi modelli, come il pant sari, un mix tra il tailleur pantalone e il sari. “Questo ha reso il sari più facile da portare e accessibile”, dice Andleeb Rana, che a Karachi gestisce il marchio di moda Bulbul.
Rimane viva però la sua associazione con l’India. Imtiaz ricorda una volta in cui un tassista di Karachi le ha chiesto se fosse indù o indiana, perché non riusciva a immaginare una pachistana musulmana indossare con disinvoltura un sari. Anche in India molti hanno questa percezione. L’anno scorso, quando i mezzi d’informazione hanno raccontato di una donna pachistana arrivata illegalmente in India per vivere con la persona di cui era innamorata, il proprietario di casa ha detto che non aveva immaginato fosse pachistana perché indossava un sari.
Tuttavia Imtiaz è cauta nel parlare di una “rinascita” del sari. “Questi cambiamenti si vedono solo nella classe medio-alta di Karachi”. In realtà il sari ha continuato a essere un capo di abbigliamento comune tra le donne indù appartenenti a contesti economicamente svantaggiati. Ma, osserva, quello che indossano i poveri non impone nuove tendenze nella
moda. ◆ gim.
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Questo articolo è uscito sul numero 1591 di Internazionale, a pagina 32. Compra questo numero | Abbonati