Lo sto aspettando da venti minuti. Poi, all’improvviso, Jack Antonoff entra nella sala. È agitato, ha in mano una bottiglia d’acqua frizzante e una borsa da cui tira fuori uno spray nasale. Se lo spruzza in entrambe le narici. “Scusami, stavo lavorando a una cosa ed ero in ritardo, non sono riuscito a finire in tempo”, si giustifica il produttore musicale. Mi sembra sincero. Gli rispondo che non c’è problema, ma insiste: “I ritardi sono fastidiosi”. Indossa una maglietta bianca con più di un buco (non è una scelta di stile, sono proprio fori su un tessuto logoro) e una costellazione di macchie marroni sulla manica. Porta occhiali neri con la montatura spessa.

A New York è un soleggiato pomeriggio di settembre. Ci troviamo al Marlton hotel sulla West 8th street, a Manhattan, dove Jack Kerouac veniva a scrivere all’inizio degli anni cinquanta. Stiamo per fare un pranzo tardivo prima che Antonoff torni nel suo studio di registrazione, a un isolato di distanza. Lo studio in questione è l’Electric Lady, un ritrovo leggendario del Greenwich village dove incisero Jimi Hendrix, Carly Simon, Stevie Wonder e altri grandi artisti. Negli ultimi anni, cioè da quando è arrivato Antonoff, fuori dall’Electric Lady sono costantemente appostati paparazzi e ragazzine.

Ha opinioni nette, e spesso negative, sull’industria musicale

Anche se non avete mai sentito parlare di Jack Antonoff, è molto probabile che abbiate ascoltato qualche brano su cui ha lavorato. Attraverso le sue collaborazioni con artiste come Taylor Swift, Lana Del Rey, Sabrina Carpenter, Lorde e molti altri, nell’ultimo decennio ha forgiato il suono della musica pop contemporanea. Ha vinto il Grammy come produttore dell’anno per tre volte consecutive, diventando la seconda persona a riuscirci dopo il produttore rnb Babyface negli anni novanta. Jack Antonoff occupa una strana posizione nel panorama delle celebrità. È un nome familiare per milioni di persone, soprattutto per le comunità dei fan su internet, ma al tempo stesso può camminare per strada senza che nessuno lo riconosca.

I critici hanno dedicato anni all’analisi dell’onnipresente “suono Antonoff” nella musica contemporanea, definendolo spesso “pop raffinato”. Al produttore viene riconosciuto il merito di aver portato in cima alle classifiche brani con influenze indie. Ma lui detesta questo genere di definizione.

“I miei dischi sono una meditazione a lungo termine sui luoghi in cui sono cresciuto e su cosa sento. Non lavoro a un progetto se non lo amo. Mi sento allergico al cosiddetto ‘momento’. Se qualcuno definisce quello che faccio come ‘moda del momento’, fatti suoi. Ma a me non interessa. Io vivo nel mio mondo”.

Antonoff, Swift e altri collaboratori hanno creato una squadra che si occupa della composizione musicale e che fa base all’Electric Lady. Quando Swift raggiunge Antonoff su West 8th street, immediatamente la polizia allestisce un cordone per contenere i fan, che a volte aspettano per ore pur d’intravedere la cantante per tre secondi mentre percorre la distanza tra l’auto e la porta.

Il figlio di talento

Oggi, però, al Marlton è tutto tranquillo. Siamo seduti in fondo al locale, oltre un’enorme sala vuota, in una stanza ancora più isolata, con muri di mattoni gialli e una vegetazione che imita le estati italiane. Siamo le uniche due persone presenti, oltre a un tizio che lavora in un angolo al computer, con le cuffie nelle orecchie.

Di persona Antonoff ha un aspetto giovanile, anche se quest’anno ha compiuto quarant’anni e tra i suoi ricci è apparso qualche capello bianco. È facile intuire perché Swift lo chiama “il mio talentuoso figlio piccolo” nonostante sia più grande di lei di diversi anni. Antonoff parla di tutto quello che vuole: delle gioie e dei dolori di guidare a New York (“la città è un enorme miracolo”), dei chiropratici (li apprezza parecchio), della carne (“il mio Instagram è fatto di pop star e bistecche”).

Quando stiamo chiacchierando ormai da diversi minuti, il produttore richiama l’attenzione del cameriere. Do una rapida occhiata al menu e ordino un panino al formaggio insieme a un tè freddo, probabilmente spinta dal panico. Antonoff prende un caffè, un panino con melanzane grigliate e una tazza di acqua calda con limone. Mi racconta che è sempre stato un po’ ossessivo. Da ragazzino, nel New Jersey, aveva “delle fisse che duravano anni”: prima il baseball, poi le figurine dei giocatori di baseball, poi i pupazzi di Star wars (“ma non i film, non m’interessavano”), poi lo skateboard. A dodici anni ha maturato una passione che è rimasta per sempre: la musica.

Jack Antonoff nel 2023 (Kevin Mazur, Getty for On Location)

L’infanzia di Antonoff è stata segnata dalla tragedia. Sua sorella minore è nata con un tumore al cervello e la sua malattia era “un argomento onnipresente in famiglia”. È morta a tredici anni, quando lui si stava diplomando. A scuola ha sempre fatto fatica. È convinto di essere affetto da un disturbo dell’apprendimento mai diagnosticato, forse la dislessia. Con l’animo distrutto dalla morte della sorella, dopo il diploma ha cominciato a dedicarsi alla sua band mentre i compagni di scuola s’iscrivevano all’università. “Non volevo seguire il percorso che gli altri avevano stabilito per me, e a quel punto non me ne fregava un cazzo di niente. Ero a pezzi, quindi pensavo ‘chi se ne frega?’”, ricorda. “Avevo sempre voluto trasferirmi a New York, girare in tour con il mio gruppo”.

La prima parte della sua carriera musicale “è stata un fiasco dal punto di vista finanziario, almeno fino ai ventisei o ventisette anni”. A quel punto Antonoff si era ormai rassegnato a “essere considerato un perdente”, ma si divertiva molto a suonare e a comporre musica, prima con una sconosciuta band indie chiamata Steel Train e poi con i Fun, in cui è entrato nel 2008. Il grande successo di We are young ha catapultato i Fun nell’olimpo del pop. Il cameriere ci porta i piatti. Antonoff rimuove in silenzio parte del pane dal sandwich e continua a rispondere alle mie domande tra un morso e l’altro. Parliamo di alcuni album su cui ha lavorato negli ultimi anni.

N orman Fucking Rockwell! di Lana Del Rey, uscito nel 2019, è stato osannato dalla critica e ha dato il via a una delle collaborazioni più riuscite della carriera di Antonoff. I due si sono incontrati, si sono scambiati alcuni messaggi, hanno cenato nell’Upper East side e poi si sono spostati direttamente nell’appartamento di Antonoff, dove il produttore aveva allestito uno studio di registrazione. Quella sera hanno scritto insieme due canzoni, dall’inizio alla fine: Love song e Hope is a dangerous thing. “Queste cose non si possono pianificare. Io sono capace di farle succedere e lei l’ha capito”, mi spiega mentre continua a divorare il suo panino.

In seguito si è trasferito a Los Angeles, dove insieme a Del Rey ha composto Venice bitch, Mariners apartment complex e il resto dell’album, un disco di soft rock poetico e scarno. “A quel punto ho pensato: ‘Wow, possiamo fare davvero qualunque cosa’”.

Completamente all’esterno

Per Antonoff scrivere canzoni è una cosa che succede completamente all’esterno del suo io. “È completamente fuori dal mio controllo. Non posso decidere ‘oggi scrivo una canzone’. Deve arrivare spontaneamente”. È un processo “molto frustrante”, aggiunge. “Non è come nei film in cui uno si fa di eroina, accende una candela e registra la canzone perfetta”. Quando compone un brano che avrà successo, però, se ne accorge subito e non ha il minimo dubbio. “Provo una sensazione fisica chiarissima che mi fa capire se è una grande canzone oppure no. Non ci sono molte variabili. Non sono mai indeciso”.

Ogni volta che si mette a lavorare, Antonoff ha paura di scoprire che la magia è svanita. “A un certo punto ognuno scrive la sua ultima canzone, e di solito succede molto prima di morire, giusto? Sembra che il dono, all’improvviso, sparisca”.

Periodicamente emerge un produttore capace di definire il suono di un’epoca, come ha fatto Quincy Jones negli anni ottanta o Max Martin negli anni novanta. Questi suoni riempiono il mondo in cui viviamo. Li sentiamo alla radio, nei taxi, in aeroporto. Lo stile di Antonoff è sorprendentemente difficile da definire. Un articolo della rivista letteraria The Drift ha associato il suo tocco al “vapore”, sostenendo che il produttore non ha conquistato il mondo del pop, “lo ha permeato come un elemento gassoso, lasciando dietro di sé un’aria di sottile buongusto, appena percepibile”.

La classica canzone di Antonoff – almeno tra quelle della sua band, i Bleach­ers – comprende ingredienti come i sintetizzatori, i ritornelli orecchiabili e i riferimenti nostalgici. Ma da produttore Antonoff ha lavorato con una gamma eterogenea di artisti, da Diana Ross e Carly Rae Jepsen fino a The Chicks (in precedenza The Dixie Chicks) e Kendrick Lamar.

Ad Antonoff capita spesso di rifiutare una collaborazione con un artista che vuole lavorare con lui, ma non vuole fare nomi (“non voglio sembrare spietato”). In questo momento sta lavorando a Romeo+Juliet, un musical che debutterà presto a Broadway. All’inizio dell’anno i Bleachers hanno pubblicato un disco, mentre questo mese uscirà una nuova registrazione del loro disco del 2014 Strange desire. Ultimamente lavora in studio ogni giorno, probabilmente insieme ad artisti famosi di cui non vuole rivelare l’identità.

Porte spalancate

È ormai pomeriggio inoltrato e il cameriere sembra essersi completamente dimenticato della nostra esistenza. Qualcuno porta una candela per indicare l’inizio del turno serale. Antonoff ha finito di mangiare, lasciando sul piatto solo dei pezzetti di patatine.

Non è stato il pranzo sontuoso che mi aspettavo. Antonoff mi chiede se sento puzza di bruciato, guardandosi intorno con agitazione. Confermo che anch’io sento lo stesso odore. “Meno male,” risponde. “Significa che non sto per avere un ictus”.

Oggi Antonoff è l’uomo più richiesto dalle star, ma nessuno lo ha preso sul serio come produttore fino a che Taylor Swift non gli ha “spalancato le porte di quel mondo”, come dice lui. È successo nel 2013, quando la cantante l’ha coinvolto nella produzione di alcuni pezzi per l’album 1989, che ha ottenuto un successo travolgente. “È stata lei a dire ‘Antonoff è un super-produttore’. Per uno come me c’è bisogno di un incontro del genere per sfondare”.

Da allora Antonoff ha lavorato a tutti gli album di Swift. Quando si parla di lei, il produttore resta volutamente sul vago. La cita spesso, ma è diventato un maestro nell’arte di raccontare storie senza rivelare nulla. Il succo è che i due si sono incontrati e hanno subito “cominciato a fare cose”.

“Ci siamo conosciuti a abbiamo trovato uno spazio magico. È incredibile averlo conservato così a lungo”, spiega. “Non è normale, credimi”.

Gli chiedo come sia nata la canzone August, uno dei brani dell’album Folklore più amati dal pubblico. La risposta è clinica: “Ho creato una traccia strumentale, gliel’ho inviata e lei ci ha cantato sopra la linea vocale”.

Dove sta andando la musica pop? “Non credo che stiamo andando da nessuna parte. Piuttosto siamo arrivati da qualche parte, e questo significa che sta per cominciare qualcosa di nuovo. Siamo al punto del rifiuto. Non vogliamo più sentirci dire cosa dobbiamo ascoltare. È uno spazio bianco in cui l’autenticità sembra vincere su tutto. Se fai caso a chi sta avendo successo, è molto incoraggiante. Chappell Roan, Sabrina Carpenter, Charli XCX. La cosa che amo di loro è che sono persone che hanno sputato l’anima e non si sono svendute”, risponde. E aggiunge: “Per quanto possa sembrare difficile, la formula per avere successo in realtà è semplicissima: non devi fare nulla per cui non saresti disposto a morire. Devi essere pronto a sacrificare tutto per quello che stai facendo. Sembra una stronzata, ma ti assicuro che nella mia vita c’è pochissima pianificazione”.

Ci restano pochi minuti. Non resisto più, è il momento di affrontare il tema della recenti critiche alla collaborazione tra Antonoff e Swift. Gli cito una recensione feroce dell’ultimo album di Swift, The tortured poets department, pubblicata dal New York Times. Nell’articolo il loro universo musicale viene definito per la prima volta “stantio”. Antonoff s’irrigidisce un po’ e capisce subito di cosa sto parlando. Poi sorride e risponde: “Non me ne frega niente. La roba che faccio invecchia benissimo”. Dopo una pausa, aggiunge: “È divertente, perché non penso che il mio lavoro sia mai stato percepito allo stesso modo in cui lo vedo io”. Gli chiedo di spiegarmi cosa gli succede nel cervello quando produce un album. “Percepisci suoni. Le tue parole e le tue emozioni si collegano ai sentimenti, poi agli strumenti. È come disegnare un mondo intero, capisci? Questo è il processo. E poi l’artista e il pubblico diventano come vecchi amici che si parlano una volta ogni due anni”.

Una sequenza d’imbrogli

Durante il pranzo ho scoperto che Antonoff ha opinioni molto nette, e spesso negative, sull’industria musicale. Paragona diverse volte il settore musicale al Partito repubblicano (“Pensi che non possa essere così folle, e invece lo è”). Secondo lui la musica dal vivo attraversa un periodo “molto buio. C’è mai stato un monopolio così evidente?”, si domanda ridendo. “Conosco il meccanismo dall’interno. Quando vendi uno show devi passare un’infinità di tempo a dire ‘no, no, no’, ‘non vogliamo il dynamic pricing (il sistema in base al quale i prezzi dei biglietti aumentano sulla base della domanda crescente), non vogliamo pacchetti deluxe a prezzi esorbitanti, dovete solo vendere i cazzo di biglietti a un prezzo che riteniamo corretto’. È una sequenza infinita d’imbrogli”.

Cosa ne pensa del fondo d’investimento britannico Hipgnosis Songs, specializzato in acquisizioni in ambito musicale? Antonoff è stato uno dei pochi musicisti fortunati (o forse scaltri) che hanno venduto il loro catalogo al fondatore dell’azienda Merck Mercuriadis nel 2019, quando il magnate offriva valanghe di soldi. In seguito Hipgnosis è sprofondata in un caos di dispute tra azionisti. “Stavo sperimentando”, racconta Antonoff precisando di aver venduto “solo una parte” del catalogo. “Amo Merck e la Hipgnosis”, aggiunge. “È riuscito a far cambiare idea a tutto il mondo a proposito del valore di una canzone. È per questo che ha fatto incazzare un po’ di gente. Il valore della musica nell’epoca dello streaming è fondamentale. Sono stanco di vedere gente che fotte gli artisti”.

Non abbiamo più tempo per parlare. Antonoff si alza, chiede se è “illegale” che io paghi il pranzo e mi saluta con un “piacere di averti conosciuto”. Regolo il conto ed esco. Lui è già scomparso all’interno dell’Electric Lady, ma fuori dell’ingresso c’è un piccolo gruppo di persone. Alcune ragazze indossano giubbotti di pelle e si aggirano sghignazzando. Poi scattano una foto alla porta dello studio di registrazione . ◆ as

Biografia

1984 Nasce a Bergenfield, negli Stati Uniti.
1998 Con alcuni compagni di scuola fonda la band punk rock Outline.
2002 Sua sorella minore muore per un cancro al cervello.
2008 Entra nei Fun, che nel 2012 arrivano al successo internazionale con il brano We are young.
2013 Produce alcune canzoni dell’album 1989 di Taylor Swift.
2024 Vince per la terza volta consecutiva il premio per il miglior produttore dell’anno ai Grammy awards.


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Questo articolo è uscito sul numero 1585 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati