“Buonanotte Cenerentola”, in Brasile, è il soprannome delle cosiddette droghe dello stupro (note anche con la sigla Ghb, una delle sostanze più comuni), di solito sciolte di nascosto nel bicchiere delle vittime, che poi nel loro torpore subiscono violenza. Buonanotte Cenerentola è anche la bevanda che l’autrice teatrale, artista e regista brasiliana Carolina Bianchi, finora poco conosciuta in Francia, beve sotto i nostri occhi, sminuzzando la pillola, agitando cubetti di ghiaccio scintillanti e particolarmente invitanti nel caldo di Avignone, in uno spettacolo che non lascia indifferenti. Nel primo terzo di A noiva e o Boa noite Cindarela (“La sposa e il Buonanotte Cenerentola”), la ragazza perde progressivamente lucidità, la sua voce e il corpo diventano pesanti via via che la sostanza fa effetto. Fine primo atto.
Resurrezione e trauma
Non bisogna però pensare a uno spettacolo violento. Al contrario, c’è una grande dolcezza, un’attenzione al gesto e un’infinita premura per gli spettatori così come per Carolina Bianchi, all’inizio sola sul palco, che con grande energia metterà in scena un tentativo di “resurrezione” della memoria e del trauma.
È dopo lo spettacolo, durante la notte, che ci rendiamo conto di come la forza delle immagini, il terrore di quello che può succedere quando non si fa attenzione c’impedisce di addormentarci. Speriamo solo che questa sensazione piano piano si dissolva.
Carolina Bianchi si distende su una tavola, tutta vestita, con gli stivali ai piedi, senza sbottonarsi i jeans bianchi, e la osserviamo a disagio, mentre i sottotitoli in francese del testo che avrebbe dovuto dire continuano a scorrere sullo schermo. La donna è incosciente. È immobile, non sembra neanche respirare. La scenografia, di un bianco immacolato, richiama il testo che non riesce più a dire, una finta conferenza appassionata sull’enigma delle violenze fatte alle donne, a lungo invisibile anche se l’arte in tutte le sue forme la rappresenta da secoli.
In un certo senso la conferenza che ha preceduto lo spettacolo – durante la quale l’artista spiega come è stata attirata dalla storia tragica dell’artista italiana Pippa Bacca, stuprata e assassinata nel 2008 in Turchia durante un viaggio in autostop che doveva portarla fino a Gerusalemme, vestita da sposa – ci prepara. Vengono mostrate delle foto del viaggio, il volto sorridente di Pippa Bacca con i capelli raccolti in una sorta di fascia. A voler essere cattivi si potrebbe osservare che non viene citato il bel racconto su quella storia, _L’abito bianco _di Nathalie Léger, molto probabilmente non tradotto in Brasile. Ma la meticolosità di Carolina Bianchi ci spiega la sua “fede” nella performance e parla del suo debito nei confronti dell’artista del Guatemala Regina José Galindo, che aveva già avuto l’idea d’ingerire sostanze psicoattive durante le sue performance, e che lei ha deciso di riproporre perché “alla minima dimenticanza, si dimentica tutto”.
C’è una bellezza luminosa nella scenografia mentre vengono proiettate le scene della Caccia infernale, capolavoro di Botticelli ispirato all’ottava novella della quinta giornata del Decameron. Si vede una donna nuda inseguita dai cani sotto gli ordini di un cavaliere, che poi la fa a brandelli e getta i suoi organi ai cani. I tempi sono cambiati? Nel 2010, ci dice l’artista, in Brasile un calciatore ha ucciso l’amante in fuga nel bosco e ha smembrato il corpo dandolo in pasto ai suoi dobermann. Durante la dittatura cilena una delle torture del regime consisteva nel violentare le prigioniere politiche usando un cane con il bel nome di Volodia, appositamente addestrato a questo scopo.
Ma quale catarsi
Subito prima del sonno profondo, Carolina Bianchi canta e balla sulle note della canzone Giorni di Mina, come un’adolescente disinibita sotto delle luci fluorescenti verdi. Il pubblico si rende conto che la droga comincia a fare effetto. È rapito e si lascia cullare dalla canzone. Uno spot rosa fucsia illumina il corpo addormentato. La scenografia scompare, il palco diventa più profondo e un telo di plastica nero lo ricopre, sullo sfondo si nota una macchina gigantesca dalla carrozzeria scintillante.
Non sappiamo da dove provenga il pericolo, lo aspettiamo con timore, osserviamo tutto, mentre una varietà di azioni simultanee confonde lo sguardo.
Un gruppo di ballerini s’intreccia in una coreografia lenta che ricorda Crowd di Gisèle Vienne. Il testo scorre sullo schermo, il monologo di Carolina Bianchi distesa in una perfetta immobilità è inquietante. È in quel momento che ci rendiamo conto che non c’è amore ma solo la sua illusione, mentre l’amicizia rimane qualcosa di tangibile? O che lo stupro ha la particolarità di rendere ossessive le persone che lo subiscono?
La distruzione del concetto di resilienza, una sorta di medaglia affibbiata alla brava vittima, si accompagna a un “fuck catharsis” scritto sulla targa della macchina. Ma Carolina Bianchi non può più reagire agli eventuali effetti catartici che il suo spettacolo ha su di lei o sugli altri. Dolcemente, gentilmente, il suo corpo inanimato è manipolato, spostato, poi allungato sul palco. Dolcemente, gentilmente, le sue gambe vengono divaricate. Quello che avviene in seguito non può essere raccontato, e bisognerebbe interrogare l’impossibilità della narrazione che la visione di questa nuova violenza produce. Alla fine il pubblico applaude in piedi, l’addormentata viene salutata, il corpo sostenuto dalla sua équipe e possiamo immaginare lo forzo sovrumano che deve fare per sorridere, per aprire gli occhi e tenere dritta la testa. Gli applausi ci danno quasi fastidio perché rischiano di affrettarne il risveglio, di non lasciarla tornare tra noi in modo più tranquillo.
Le droghe dello stupro, ci dice Carolina Bianchi nel primo atto, hanno la particolarità di suscitare confusione tra passato e futuro, di privarci della nostra vita. Carolina Bianchi reciterà ancora domani e dopodomani. Non è certo necessario spiegare perché le rappresentazioni di questo spettacolo, che testimonia come pochi altri la necessità del teatro, si conteranno sulla punta delle dita. ◆ adr
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Questo articolo è uscito sul numero 1520 di Internazionale, a pagina 72. Compra questo numero | Abbonati